Spazzatura digitale

spazzatura digitaleNel mondo ci sono più di 7 miliardi di persone che vivendo e consumando generano circa 4 miliardi di tonnellate di rifiuti: una massa enorme che crea un enorme problema ambientale. Nel mondo le persone connesse ad internet sono circa 3 miliardi: quanta spazzatura digitale crea questa popolazione virtuale? Dare una risposta precisa forse è impossibile. Ma farsi questa domanda, così come accade per la spazzatura “tradizionale”, forse ci aiuta a prendere coscienza di quanti sono i detriti digitali che ciascuno di noi produce e di come possano influenzare la nostra vita.

Chi di noi frequenta un social network, gestisce un sito web, aggiorna un blog produce testi, immagini e documenti in quantità più o meno costanti ma considerevoli. Quando diventano “spazzatura” web? Per rendercene conto potremmo fare una prova: scorriamo indietro la nostra timeline di Facebook oppure proviamo a guardare a post pubblicati indietro nel tempo sul nostro blog. Che effetto ci fanno? Ci rappresentano ancora? Raccontano qualcosa di noi? Questo esperimento, per così dire, lo ha fatto il noto blogger Luca Conti e ne racconta i risultati (parziali) in questo post che possiamo riassumere con questa sua frase: “ho accumulato nel tempo, in piattaforme diverse, un sacco di materiale che mi rendo conto oggi essere a) per lo più inutilizzabile, vecchio, superato, b) archiviato, taggato, ma non così facile da recuperare, c) depositato in archivi di servizi (quasi) abbandonati da chi li ha creati o d) non utili nel rapporto tempo dedicato / risultato ottenuto.” Chiaramente la produzione di materiale obsoleto è proporzionale all’intensità della nostra attività sul web. La domanda successiva è: come e quanto influisce questo trash nella nostra vita? Ce ne dobbiamo preoccupare?

“Preoccupazione” forse è una parola esagerata. Quella giusta potrebbe essere “attenzione”. Attenzione a quello che pubblichiamo e a come i contenuti si deteriorano nel tempo. Potrebbero esserci cose che abbiamo condiviso nelle quali non ci riconosciamo più oppure che pensiamo essere superate. O, peggio, contenuti che potrebbero risultare poco apprezzati dagli altri, come ad esempio da chi potrebbe darci un lavoro. Anche se molti ancora ne dubitano, è sempre più frequente, per chi si occupa di ricerca e selezione del personale, utilizzare i social media e il web in generale per “indagare” in cerca di conferme sulle competenze dichiarate dai candidati sul curriculum o sulla lettera di presentazione, ma anche in cerca di eventuali “scheletri nell’armadio”, che potrebbero non rendere il candidato in questione così adatto ad un determinato ruolo o ad una certa azienda. Si tratta di allarmismo? Pratiche illecite? Cattiveria di chi seleziona? Probabilmente, a seconda dei casi, le risposte a queste domande potrebbero essere tutte affermative. Ciò non toglie che ciascuno di noi, singolarmente, può decidere come regolarsi. Un’azienda di selezione ha pubblicato una presentazione con i consigli per eliminare la spazzatura digitale. Tra le varie cose che ci stanno scritte c’è una domanda che potrebbe essere utilizzata come un discrimine, un parametro per scegliere cosa pubblicare o non pubblicare per rendere i nostri profili “employer friendly” (piacevoli e accoglienti per chi potrebbe assumerci): (quello che hai pubblicato) lo diresti ad un colloquio?

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