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giornata internazionale dei diritti della donna

Sessismo e parità di genere, a che punto siamo?

A cosa serve la Giornata internazionale dei diritti della donna? Perché è importante che ci sia, e che non venga scambiata per una festa?

La risposta ce la danno i numeri, ma non solo.

Chiunque è in grado di trovarsi i numeri delle donne vittime di femminicidio (cioè uccise in quanto donne), che nel 2021 sono già state 12 solo in Italia (due alla settimana).

Su questo aspetto, solo per dire quanto non stiamo facendo passi avanti, a partire già dal linguaggio, sono stati realizzati, tra molti altri, due progetti, diffusi da Repubblica, realizzati uno nel 2016 dal fotografo Pietro Baroni, che si chiama “Parole d’amore”  e uno, inconsapevolmente gemello, realizzato in preparazione all’8 marzo di quest’anno dalla scrittrice Michela Murgia, dal titolo “Stai zitta, e tutte le frasi che non vogliamo più sentire”.

A questi fatti si aggiunge una cultura (purtroppo molto diffusa, anche vicino a noi) ancora carente, arretrata e discriminatoria nei confronti di tutte le donne, che, andrebbe forse ricordato, non sono una minoranza fragile da difendere, ma sono la metà del genere umano, ancora poco o per niente rappresentata nei luoghi che contano.

Per considerare altri ambiti, comunque connessi, tutti abbiamo sentito la notizia della percentuale di posti di lavoro persi nell’ultimo anno a causa della pandemia, che sono per il 70 per cento donne.

Si parla da un po’ proprio di gender gap, o divario di genere, cioè della disparità tra uomo e donna in molti ambiti (lavorativo, educativo, sanitario, istituzionale, artistico) e che ha origine nella concezione per cui la donna è una sottocategoria (e quindi inferiore) all’uomo, preso a misura di tutte le cose.

Solo per fare degli esempi pratici, ad oggi le donne sono molto spesso escluse dai premi letterari e artistici; dalla direzione di giornali, delle università; sono scarsamente presenti nei ruoli importanti della politica a tutti i livelli, e raramente chiamate a parlare come relatrici nei panel di esperti (di qualsiasi argomento si tratti).

Sappiamo che troppo spesso le donne, a parità di ruolo e di risultati vengono pagate meno degli uomini (fenomeno conosciuto come gender pay gap), perché si parte da un dislivello culturale, cioè la percezione che il lavoro delle donne sia di qualità più bassa e che possa essere retribuito in maniera diversa.

Ma sappiamo anche che le ragazze, già a scuola, fanno meglio dei loro compagni maschi, e si laureano di più e più in fretta. Come mai poi non arrivano ai ruoli di responsabilità e prestigio che spetterebbero loro?

Per dare risposta a questa domanda, sono vari gli aspetti da considerare e sui quali c’è ancora parecchio da lavorare.

Il primo riguarda il fatto che l’autorevolezza, necessaria a vedersi assegnati ruoli di una certa importanza, va sì costruita, ma poi va anche riconosciuta dagli altri, e se questo non avviene a causa del genere, è un problema di sistema (questione che si interseca con quella del merito).

L’altro aspetto ha a che fare con l’educazione, e in particolare con le differenze di messaggi che vengono inviati, più o meno consapevolmente, ai bambini, già a partire dai primi anni. Si va dal banale e già molto discusso “giochi per le femmine” e “giochi per i maschi”, a un livello molto più sottile e pervasivo, rispetto a quello che è appropriato per una ragazza e quello che non lo è (mentre provate a pensare che cosa non è appropriato per un ragazzo: non vi viene in mente niente? Ecco).

Da secoli le bambine e le ragazze vengono educate ad essere obbedienti, disciplinate, controllate, responsabili, e addirittura docili, remissive, umili e rispettose. E questa è in parte la ragione per cui a scuola, un luogo organizzato da regole e prove uguali per tutti, se la cavano meglio.  Ai ragazzi invece viene passato, in maniera più o meno consapevole, il messaggio opposto: anche quando disobbediscono e trasgrediscono, è facile che vengano più o meno apertamente giustificati, perché va bene che abbiano carattere, che prendano le loro decisioni, che siano determinati, che si impongano, insomma.

Qual’è il risultato di anni di questo tipo di educazione, basata su una cultura che, volenti o no, si ritrova in molti modelli familiari ma anche e soprattutto nei messaggi che continuamente ci arrivano dai media, dalle pubblicità, e a volte perfino dalle istituzioni?  Il risultato è di crescere ragazzi e ragazze come persone educate, in sostanza, i primi a comandare e le seconde  ad obbedire, per cui si verifica anche una minore propensione a ricoprire ruoli di responsabilità e comando, da parte delle donne.

Aggiungiamo a tutto questo il problema del carico di responsabilità delle categorie non autosufficienti della famiglia (figli, anziani, disabili, invalidi, e spesso, diciamolo, anche gli uomini di casa), che ancora troppo spesso vengono considerate di pertinenza delle donne, sempre secondo la cultura arretrata di cui sopra.

Dovremmo ricordarci che questi sono problemi che riguardano tutta la società e non solo le donne, e sono di carattere sia sociale che economico. Infatti da un lato hanno a che fare anche con la diffusione di modelli tossici di mascolinità e di rapporti tra i sessi, e dall’altro sappiamo che un paese che si priva del lavoro delle donne è un paese che non cresce.

La giornata internazionale dei diritti della donna ci aiuta a portare l’attenzione su questo enorme problema, al di là delle pagine di cronaca nera, come un parametro fondamentale di civiltà di tutti i paesi.

Cambiare atteggiamento e linguaggio è un percorso che dobbiamo fare tutti, quotidianamente, non solo l’8 marzo. Poi è necessario anche fare pressione perché questo cambiamento avvenga a tutti livelli, tra cui quello istituzionale.

Una cosa da fare subito, ad esempio, è firmare la petizione dell’UNICEF, per chiedere il rinnovo del piano nazionale antiviolenza.

Marzo è finito, e le donne?

Questo mese surreale è finito, e sta cambiando radicalmente le nostre abitudini senza guardare in faccia a niente e nessuno: confini, città, nazioni, origine e religione, ricordandoci che siamo tutti soggetti alle stesse malattie e alle stesse leggi della natura.

L’epidemia, poi pandemia, ha infatti trasformato il mese di marzo, generalmente dedicato alla donna, nel mese della quarantena.
Questo evento di rilevanza mondiale ha oscurato tra le altre cose la ricorrenza dell’8 marzo, ma soprattutto ha fatto passare in secondo e spesso in terzo piano la situazione di molte donne.

A voler vedere un aspetto positivo, il coronavirus ci ha liberato, diciamolo, da tutta l’annuale retorica che confonde la giornata internazionale della donna con una festa condita da ringraziamenti alle donne per quello che fanno e sopportano tutto l’anno, salvo poi tornare alle solite (brutte) abitudini. Ci siamo risparmiati iniziative che insistono proprio sugli stereotipi che sono invece da comprendere e superare. La donna che una volta all’anno da oggetto si mette dalla parte di chi guarda l’oggetto (le feste a base di torsi nudi maschili), per poi tornare dov’era il giorno dopo. O la donna come creatura la cui essenza si esaurisce in dolcezza, sorrisi, poesia, abnegazione e sacrificio per la famiglia, maternità e passi indietro. Tutte immagini che se applicassimo agli uomini ci farebbero quanto meno notare l’inconsistenza di tale rappresentazione di una persona. Per non parlare dei discorsi sulla violenza di genere, sempre concentrati sulla violenza fisica, e che dimenticano tutte le altre forme di violenza, altrettanto limitanti e lesive dei diritti e della dignità delle persone.

Ci sono però aspetti già problematici che sono notevolmente peggiorati con la situazione in cui ci troviamo. L’emergenza coronavirus ha fatto esplodere un’altra emergenza, quella delle violenze domestiche e dell’isolamento delle donne a rischio di maltrattamenti. Le misure restrittive hanno reso ancora più vulnerabile chi vive in situazioni di pericolo e sotto minaccia dei conviventi maltrattanti. Essendo costrette a casa per la maggior parte del tempo, è più difficile avere la possibilità di contattare i CAV – Centri antiviolenza, che hanno visto infatti un calo dei contatti.
Calo che non ha certo significato il cessare delle violenze e dei maltrattamenti, come i casi di cronaca riportano, anche vicino a noi.

E’ importante quindi ricordare che, anche in questo periodo, per supporto o per consiglio si possono contattare telefonicamente i centri antiviolenza, come quello di Ancona gestito da Donne e giustizia, al numero 071 205376 o al numero verde 800 032 810, oppure il 1522, Numero Nazionale Antiviolenza Donne, attivo 24 ore su 24.

Da qualche tempo il 1522 è anche un’app, attraverso la quale è possibile chattare con le operatrici e chiedere aiuto e informazioni in sicurezza, senza correre il rischio ulteriore di essere ascoltate dai possibili aggressori. Contattare un centro serve anche a capire se effettivamente si sta vivendo in una relazione maltrattante e se si è a rischio. Le operatrici potranno dare consigli su come comportarsi per minimizzare i rischi.

Nei casi in cui ci si trova in pericolo il consiglio è quello di contattare le forze dell’ordine, come la polizia, che anche ad Ancona ha avviato lo scorso febbraio il progetto di sensibilizzazione “Questo non è amore”. Si può utilizzare il numero 112: la chiamata, sia da telefono fisso, che cellulare è gratuita. Si può usare una lingua diversa dall’italiano, grazie al servizio multilingue, che traduce la chiamata con l’aiuto di un interprete.

Una iniziativa che riguarda la situazione di difficoltà seguita alle restrizioni è stata presa la settimana scorsa dal Ministro dell’Interno. Tutte le Prefetture, a seguito delle difficoltà nell’accogliere donne vittime di violenza, sono infatti state invitate dal ad attivarsi per individuare e rendere disponibili ulteriori alloggi, con la garanzia della necessaria sicurezza sanitaria.

Per poter vedere diminuire i numeri che riguardano le violenze prima del prossimo marzo è necessaria l’attenzione di tutti. Anche ai vicini di casa sono persone a cui chiedere aiuto per poi intraprendere il percorso di uscita da una situazione di maltrattamenti. E i vicini di casa siamo tutti noi.

Bonus bebé 2018

Il Bonus bebè, chiamato anche assegno di natalità, è un contributo economico che lo Stato eroga per mezzo dell’Inps, come aiuto alle famiglie con basso reddito.

Si tratta di una misura per sostenere la natalità, legata al ‘benessere’ della famiglia: al reddito dei suoi componenti e alle eventuali proprietà.

Consiste in un assegno di 80 euro mensili per le neomamme e famiglie adottive con ISEE sotto i 25mila euro mentre per le famiglie a basso reddito fino a 7mila euro l’importo dell’assegno raddoppia e passa da 80 a 160 euro mensili.

Se, però, nella scorsa Manovra, le famiglie con figli e le future mamme erano state al centro dell’attenzione, quest’anno la nuova Legge di Bilancio 2018 ha fatto un passo indietro.

Il bonus bebè, infatti, è stato riconfermato con gli stessi importi ma è cambiata la durata dell’agevolazione.

Dal 1° gennaio 2018 verrà corrisposto non più fino al terzo anno di vita del bimbo (o al terzo anno di ingresso nel nucleo famigliare, per chi adotta), ma solo fino al primo anno.

Questa novità, ovviamente, non riguarda coloro che hanno fatto richiesta del Bonus Bebè negli anni scorsi, i quali continueranno a ricevere il contributo fino al compimento dei 3 anni del figlio o al 3° anno dall’ingresso in famiglia del figlio adottivo.

La domanda di assegno di natalità va presentata direttamente online all’INPS tramite accesso all’area riservata del sito con PIN INPS personale. Va presentata una sola volta per ogni figlio da uno dei genitori entro 90 giorni dalla nascita o dall’entrata in famiglia (in caso di adozione).

Nel caso di gemelli la somma percepita va moltiplicata per il numero degli stessi.

Fermo restando la soglia reddituale tutti i neo genitori o genitori adottivi (italiani, cittadini dell’UE o extracomunitari con permesso di soggiorno) possono fruire del bonus bebè 2018, purché esista, anche, il requisito della coabitazione genitore – figlio.

Il pagamento avviene entro il 5° giorno di ogni mese ed avviene su conto corrente bancario o postale.

Le famiglie che ricevono il Bonus Bebè da diversi anni, invece, per continuare a beneficiarne anche per il 2018, devono presentare la nuova dichiarazione sostitutiva unica (DSU) che serve per il rilascio dell’ISEE 2018.

Festa della mamma: ecco perché!

La seconda domenica di maggio si festeggia la Festa della Mamma in Italia e in molti Paesi del mondo.

Le origini di tale festa risalgono all’antichità, alle popolazioni politeiste che, nel periodo primaverile, celebravano le divinità femminili legate alla terra e alla sua ritrovata fertilità.

Nell’antica Grecia veniva dedicato alla mamma un giorno dell’anno: la festa coincideva con le celebrazioni in onore della dea Rea, la madre di tutti gli Dei.

Gli antichi romani, invece, intitolavano una settimana intera alla divinità Cibele, simbolo della Natura e di tutte le madri.

In epoca moderna la festa della mamma è stata interpretata e festeggiata in modi diversi a seconda dei Paesi. Tutte le tradizioni però sono accomunate dal fatto di mettere al centro la mamma e il suo ruolo all’interno della famiglia.

La scelta della data (seconda domenica di maggio) ha un significato ben preciso.

La Festa della Mamma “moderna” nasce infatti nel 1908 per iniziativa dell’americana Anna Jarvis, che con tale ricorrenza volle rendere omaggio alla figura di sua madre, un’attivista a favore della pace, e di tutte le madri del mondo.

La mamma di Anna, Ann Marie Reeves Jarvis, lavorò attivamente per migliorare le condizioni socio-sanitarie degli abitanti della sua comunità, e in particolare delle mamme malate di tubercolosi, attraverso i suoi Mother’s Day Work Clubs.

Quando morì, la seconda domenica di maggio del 1905, sua figlia volle istituire una festa nazionale in suo onore e in onore di tutte le mamme e a tale scopo diede vita ad un’importante campagna.

Il primo Mother’s Day fu celebrato il 10 maggio 1908 in Virginia, ma nel 1914 il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson proclamò ufficialmente la seconda domenica di maggio la giornata nazionale della mamma.

Sull’esempio americano, quasi tutti i Paesi del mondo hanno fatto propria tale festa con modalità e date diverse.

In Italia la Festa della Mamma venne festeggiata a partire dagli anni Cinquanta.

Nel 1958 il senatore Zaccari presentò al Senato della Repubblica un Disegno di Legge perché venisse istituita questa festa.

Anche in Italia la Festa ricorre la seconda domenica di maggio.

Anche se orma ha perso i connotati originari ed ha assunto più che altro carattere commerciale, ricordatevi che per una mamma il regalo più prezioso sono i propri figli.

voucher

Voucher aboliti ma sopravvivono

I voucher o buoni lavoro sono ormai da un po’ di tempo oggetto di particolare attenzione e notizia in continua evoluzione.

Ripercorrendo velocemente le tappe fondamentali, i voucher sono stati introdotti dalla legge Biagi nel 2003 allo scopo principale di far emergere il lavoro sommerso. Inizialmente rivolti a disoccupati di lunga durata studenti, pensionati, casalinghe utilizzabili per una particolare tipologia di lavori ad esempio: piccoli lavori domestici, lezioni private, pulizia di edifici. Poi negli anni  è stato legittimato l’uso per quasi tutti i tipi di lavoro, infatti nel 2012 la legge Fornero ha escluso qualsiasi vincolo nell’impiego del voucher.

Il Jobs Act 2015 ha previsto l’innalzamento del limite economico massimo annuo di compenso percepibile da cinque mila a sette mila euro netti  (due mila euro per committente), con il divieto di utilizzo nell’esecuzione di appalti e con obbligo di tracciabilità.

In parole semplici il voucher viene  acquistato dal datore di lavoro ad un valore di 10 € e alla riscossione il lavoratore percepisce 7,50 €, la differenza si concretizza in contributi.

Inoltre con il Job Acts è stata confermata la possibilità, per i percettori di prestazioni integrative del salario o di sostegno al reddito, di effettuare prestazioni di lavoro accessorio, in tutti i settori produttivi, compresi gli enti locali, nel limite complessivo di 3.000 euro (lordo 4.000 euro) di compenso per anno.

La liberalizzazione nell’utilizzo dei voucher ha portato sicuramente ad una emersione del lavoro nero ma anche a molti abusi. Infatti molti datori di lavoro attivavano il buono solo quando scattavano i controlli, in modo che il lavoratore risultava in regola in quel momento e quindi con un solo buono venivano retribuite molte ore di lavoro.

Ecco che a marzo 2017 nel decreto legge n.25, pubblicato a tempo di record in Gazzetta Ufficiale, vengono aboliti i voucher, quindi dal 17 marzo è vietato l’acquisto dei voucher.

Quelli già acquistati possono essere utilizzati fino al 31 dicembre 2017.

Come specificato nella nota del sito Inps, è attivo il servizio on line per attivazione, riscossione e rimborso dei voucher fino a fine anno.

Colpo di coda finale, ripristinata l’emissione dei voucher baby sitting, con una nota dell’INPS emessa ieri,  30 marzo 2017, a seguito  di una risposta affermativa ricevuta dal Ministero del Lavoro e dal Dipartimento Politiche per la Famiglia.

L’Istituto comunica di aver modificato la procedura in modo da consentire l’emissione dei voucher baby sitting – contributo asilo nido visto che non è stata prevista l’introduzione di strumenti alternativi per l’erogazione del beneficio dopo l’abrogazione dei voucher.

Quindi resta la possibilità per la madre lavoratrice, al termine del periodo di congedo di maternità, per gli undici mesi successivi e in alternativa al congedo parentale, di scegliere la corresponsione di voucher per l’acquisto di servizi di baby-sitting o per gli oneri della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi privati accreditati.

Contributo prorogato per il 2017 e 2018 che continuerà con la stessa modalità dei voucher corrisposti in modalità telematica, secondo le istruzioni fornite dall’INPS con la circolare n. 75/2016, che contiene anche la procedura da seguire per l’utilizzo telematico dei buoni lavoro.

Per ulteriori aggiornamenti dedicheremo spazi ad hoc nel nostro blog visto il tema caldo.

8 marzo donne

Un nuovo 8 marzo

É di nuovo la festa della donna, e un po’ di noia assale tutti al pensiero delle solite frasi, delle solite mimose, delle solite serate organizzate con la scusa di questa ricorrenza.
Noia, ma sempre più anche fastidio, dal momento che negli ultimi anni e mesi sembra di assistere ad un crescendo globale di discriminazioni e violenze (verbali, fisiche e sociali) nei confronti delle donne.

A tutto ciò il mondo femminile sta reagendo, e il 2017 è cominciato con le manifestazioni del 21 gennaio (675 in tutto il mondo, di cui 3 anche in Italia) che hanno preso il via negli USA in risposta ai comportamenti e alle parole sessisti e irrispettosi del nuovo presidente Trump.

Ma non è certo l’ennesimo uomo al potere con idee razziste e modi arroganti l’unico motivo che sta facendo muovere migliaia di donne in tanti paesi: c’è un nuovo femminismo, che ha come obiettivo la promozione delle condizioni sociali e lavorative di tutte le donne, di qualsiasi nazionalità e provenienza. Un movimento internazionale, che presta occhi e orecchie alla condizione delle donne all’interno delle numerose questioni di rilevanza globale che in questo momento tutti gli Stati sono chiamati ad affrontare: dai conflitti e la povertà estrema di alcune aree del mondo e le conseguenti migrazioni, alla tratta di esseri umani, dalle nuove schiavitù alle condizioni di lavoro discriminatorie.

Questo nuovo femminismo si differenzia dal precedente, che proponeva alle donne di auto-promuovere le proprie condizioni di vita facendosi avanti nell’ambito familiare, sociale e lavorativo, ma che non è applicabile a un grandissimo numero di persone che non hanno le risorse personali e gli appoggi adeguati per farlo.
I nuovi movimenti sorti nei vari paesi aspirano al cambiamento in un contesto più ampio e si rivolgono a tutte le forme di violenza contro le donne, chiedono il riconoscimento dei diritti in campo lavorativo e retributivo, nel settore sanitario e riproduttivo (libertà di decidere del proprio corpo, diritto all’aborto), per quanto riguarda l’orientamento sessuale (lotta all’omofobia) e la provenienza (lotta alle politiche migratorie xenofobe).
Sarebbe quindi il momento di guardarsi intorno e cominciare tutti (e tutte) a considerare questo argomento e a vivere l’8 marzo in modo diverso, andando oltre il racconto e l’esposizione delle storie di violenza fisica, come troppo spesso si è fatto, e a volte anche in modi controproducenti alla causa (purtroppo ne abbiamo esempi anche vicini) continuando a diffondere stereotipi senza fondamento nella realtà dei fatti e dei numeri.

Che questo 8 marzo sia solo il primo giorno di una nuova vita di convivenza pacifica e rispettosa dei bisogni, dei diritti e delle libertà di ognuno in quanto essere umano: è un augurio, un sogno realizzabile, ma solamente con il contributo di tutti.

Jobs act per donne (e non solo)

jobs act per donneLungi dal compiersi delle pari opportunità effettive, nel nostro Paese qualcosa si muove anche per quello che riguarda il mondo del lavoro e le donne. I problemi sono diversi e rilevanti: l’accessibilità alla carriera, il riconoscimento delle competenze, la valutazione effettiva dei risultati, la discriminazione di fatto in alcuni settori. Ma anche quando il lavoro è una opportunità effettiva i problemi non mancano. Come abbiamo letto qui il dato tutto italiano è l’abbandono del lavoro delle mamme alla nascita del primo figlio: lo fa quasi un terzo delle donne occupate, secondo i dati diffusi dall’Istat e dall’Isfol. Se infatti prima della nascita dei figli lavorano 59 donne su 100, dopo la maternità ne continuano a lavorare solo 43“. Dunque un nodo cruciale è senz’altro (e ancora!) la maternità.

Qualcosa forse potrà cambiare nei prossimi mesi, perlomeno a livello giuridico. Infatti una delle deleghe previste dal jobs act riguarda la tutela della genitorialità (i figli non sono una questione riservata alle donne che li partoriscono). Come ormai avrete imparato il famigerato jobs act è una sorta di cornice di riferimento per una serie di azioni che riguardano il lavoro; cornice dalla quale poi nasceranno normative specifiche per regolare i singoli settori di intervento. E così, anche in questo caso, ci sono le linee guida che poi i successivi interventi normativi dovranno seguire. Ecco quelle che riguardano il lavoro e le donne: rafforzamento nella tutela dei diritti; misure fiscali per favorire la partecipazione del secondo percettore di reddito; potenziamento dell’offerta di servizi; flessibilità. Che cosa potrebbero significare nel concreto?

L’articolo di Casarico e Del Boca su Lavoce.info lo spiegano in questo modo. Un primo passo importante sarà in primo luogo l’estensione del diritto al congedo di maternità a tutte le categorie di donne lavoratrici. Un secondo passaggio sarà quello del credito di imposta: un credito per le donne lavoratrici, anche autonome, con figli minori o disabili non autosufficienti e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito individuale. L’obiettivo in questo secondo caso è anche quello di costituire un importante incentivo all’offerta di lavoro. Rimane però il nodo dei contratti a progetto: il jobs act non li abolisce, nemmeno per le donne o per certe situazioni contingenti, come la maternità, che potrebbero far scattare una riserva di tutela aggiuntiva.  “Ciò può avere effetti più pesanti per le donne, che già ora più numerose nei contratti a termine (14,2 per cento contro il 12,6 per cento per gli uomini nel 2013): i datori di lavoro avrebbero infatti possibilità di fare alle donne contratti brevi e di non rinnovarli alla scadenza in caso di gravidanza, aggirando i vincoli alle dimissioni in bianco.

Dal punto di vista dell’assistenza il jobs act propone anche una profonda integrazione pubblico-privato dell’offerta di servizi per l’infanzia. Quello a cui dovremmo assistere dovrebbe essere l’estensione di una buona pratica adottata in alcune regioni come l’Emilia Romagna in cui anche in tempo di crisi gli asili non sono diminuiti, anzi in certi casi aumentati. Dovrebbero così aumentare in numero ed in qualità servizi come l’asilo aziendale, quello condominiale e più in generale un’offerta di assistenza all’infanzia e alla genitorialità più varia. Infine per quello che riguarda la flessibilità (quella buona) dovrebbero riguardare prevalentemente le donne misure come il telelavoro, la flessibilità di orario di lavoro e la possibilità di cessione dei giorni di ferie tra lavoratori per attività di cura di figli minori.

Fin qui sembra tutto ok. C’è un “ma”. Queste misure sono subordinate alla condizione che non comportino ulteriori spese a carico dello Stato. E su questo punto ci sembra di poter condividere e sottoscrivere la considerazione finale delle due redattrici dell’articolo: “il rischio è che per quanto significative o condivisibili possano essere le politiche, la loro realizzazione dipenderà dall’effettivo reperimento di risorse economiche. E finora il nostro paese non è riuscito a considerare queste misure come prioritarie per lo sviluppo, e quindi in cima all’agenda politica. Un cambio di passo è quanto mai necessario“. Chiaramente, ci auguriamo anche noi un cambio di passo: non solo per le donne, ma per tutti noi.