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Scelta post laurea triennale

Dopo tre anni di studio ed impegno per conseguire la laurea triennale, gli studenti hanno di nuovo bisogno di consigli su come scegliere la strada giusta per il proprio futuro.

Alcuni laureati decidono di entrare nel mondo del lavoro, altri decidono di continuare gli studi all’estero, dove la magistrale è chiamata Master Degree, altri valutano l’iscrizione ad un master di primo livello, una buona metà di laureati continuano il percorso iscrivendosi ad un corso di laurea magistrale.

Il master di primo livello è rivolto a coloro che vogliono una formazione più professionalizzante dopo la triennale. Questo percorso esiste solo in Italia; nei paesi esteri ci sono dei corsi universitari di un anno, o anche meno, ma non sono paragonabili a questo titolo. I master di primo livello possono essere organizzati dalle università oppure da enti privati. Entrambi hanno i loro aspetti positivi e negativi; se sono organizzati da enti privati è probabile che sono spendibili per lo più nell’azienda che li ha organizzati, mentre il master universitario è riconosciuto, ma non sempre garantisce un accesso rapido al mondo del lavoro come ci si potrebbe aspettare.

Sicuramente valutare di intraprendere un nuovo percorso di studi universitari: una laurea magistrale, è una decisione importante e a volte appare come un’impresa difficile; le possibilità offerte sono numerose, e non è facile riconoscere le proprie passioni, motivazioni ed aspirazioni (anche se noi consigliamo sempre di partire da queste!).

Per scegliere un corso di laurea magistrale piuttosto che un altro è fondamentale analizzare le proprie qualità personali, le conoscenze e competenze acquisite durante il percorso triennale, cercando di capire i punti di forza e di debolezza su cui voler investire per il futuro.

Altrettanto importante è confrontare quanto è emerso con le figure professionali incontrate durante la triennale, tenendo conto della continua evoluzione del mercato del lavoro.

Essenziale raccogliere tutte le informazioni possibili sull’Ateneo, la facoltà ma soprattutto sul percorso di studi; valutando i piani di studio, analizzando gli insegnamenti caratterizzanti e quelli integrativi, confrontandoli con le proprie aspettative. Valutare i contenuti ed i metodi attuati dai docenti cercando di capire se si tratta solo di professori universitari o anche di professionisti che hanno esperienze accademiche e non.

Informarsi significa tenere costantemente sotto controllo il sito dell’Ateneo per restare aggiornati su eventuali bandi, prove di ammissione, scadenze e non solo, infatti anche per la scelta della magistrale le facoltà organizzano attività di orientamento ed open day.

Nuove professioni: scegli il tuo futuro per pianificare domani

Giovedì 13 Settembre alle ore 18,00 presso l’Informagiovani di Ancona abbiamo organizzato l’evento “Nuove professioni: scegli il tuo futuro per pianificare il domani! in collaborazione con Masterandskills, la Business School del dipartimento di Metodi e Modelli per il territorio, l’economia e la Finanza della Sapienza Università di Roma.

L’evento è rivolto a ragazzi laureati del territorio marchigiano ed ha come obiettivo il dialogo tra esperti dell’attuale mercato del lavoro ed i giovani per valutare come rendere spendibile il proprio titolo di studio sul territorio.

Manager, Imprenditori, psicologi del lavoro, la Business School Masterandskills  interverranno per presentare una fotografia dinamica dei bisogni del mercato e delle figure professionali nuove o tradizionali ma ripensate in funzione di nuovi bisogni del mercato dei giovani e del loro futuro professionale.

L’evento prevede una tavola rotonda con domande aperte da parte dei partecipanti  alle quali gli esperti offriranno risposte e soluzioni realistiche per avere un orientamento concreto al proprio futuro. Inoltre per la MasterandSkills sarà l’occasione per presentare un Master Executive: “Management per nuove strategie di crescita delle PMI”.

La MasteranSkills è una Business School nata con l’obiettivo di offrire una forte specializzazione a laureati, laureandi e professionisti provenienti dal settore economico-giuridico. Ha come mission l’erogazione di servizi formativi di alto profilo specialistico professionale ma progettati con un taglio decisamente pragmatico.

La dott.ssa Cristina Menichelli, co-fondatrice e direttrice di Masterandskills chiarisce la mission con questo intervento: “Le nostre iniziative, spesso innovative, sono concepite come una sorta di palestra formativa che si pone l’obiettivo di potenziare e massimizzare Ie performance dei singoli: i rilevanti risultati di placement dei giovani sono il frutto di un articolato lavoro complessivo, tailored (costruito su misura) sui ragazzi. La MasteranSkills non è un’agenzia per il lavoro, non offre solo la possibilità di incontro di domanda ed offerta ma è soprattutto una struttura formativa all’interno della quale i ragazzi che utilizzano al meglio l’allenamento della palestra ottengono un placement, un esito occupazionale di alto profilo. Questa è la caratteristica che ci contraddistingue”.

Se diamo uno sguardo ai numeri vediamo che MasterandSkills ogni anno forma 500 giovani, di cui l’80% trova collocamento nelle aziende nazionali, il restante ottiene una posizione lavorativa all’estero o dà vita ad un proprio progetto di imprenditoriale.

Per restare aggiornati e partecipare all’evento è necessario prenotare il proprio posto gratuito cliccando qui.

Un lavoro ben fatto

La prossima settimana si festeggia, come ogni anno, il lavoro. Il primo maggio, per una nazione come la nostra la cui Costituzione recita che è una Repubblica fondata sul lavoro, è una festa che non si può mancare. Sulle origini di questa festa ci sono diverse teorie, anche se in ogni caso la festa è in onore di persone che si sono sacrificate per ottenere diritti universali nel contesto lavorativo. Ma, al di là delle origini, che tipo di lavoro festeggiamo?

Questo, lo abbiamo detto più volte, è un tempo di grandi trasformazioni e di una specie di rivoluzione (che tutti ci auguriamo sia poi un’evoluzione). Ma, per quel che ne riusciamo a capire adesso, sembra proprio che molte delle certezze che avevamo non esisteranno più nel futuro: uno dei primi ad andarsene è stato il posto fisso, poi qualche carriera sicura (vogliamo parlare dei bancari?), le garanzie di un reddito in costante crescita, la stabilità di qualche grande azienda. Ma se sono andate, o se ne stanno andando, anche la scarsità delle opportunità, la mancanza di informazioni, alcuni privilegi ingiustificati. Ma la domanda è: che cosa rimane? Che cosa vorremmo che rimanesse del lavoro?

Personalmente una risposta l’ho trovata nel Manifesto del Lavoro Ben Fatto, pubblicato da Vincenzo Moretti un paio di anni fa. Questo elenco di argomenti ha l’intenzione di stabilire quali sono le caratteristiche che distinguono un lavoro fatto con cura, indipendentemente dalle mode, dai tempi e dalle rivoluzioni (o evoluzioni). Leggetelo, perché è un modo non solo di tornare ad apprezzare il lavoro come espressione delle proprie potenzialità, ma penso che possa essere una buona guida per analizzare il proprio lavoro oppure per cercare quello che vorremmo.

Mi piace qui riportare tre delle “regole” del manifesto che mi sono piaciute di più. La prima dice che “qualsiasi lavoro, se lo fai bene, ha senso”; la seconda che “nel lavoro tutto è facile e niente è facile, è questione di applicazione, dove tieni la mano devi tenere la testa, dove tieni la testa devi tenere il cuore”; la terza (della mia personale classifica, settima nel manifesto) dice che “il lavoro ben fatto non può fare a meno dell’amore per quello che si fa e del piacere di farlo”. Tutte le altre, sono 52 in tutto, le potete leggere nel link che ho postato qui sopra.

Non mi rimane che augurarvi buon primo maggio e buona festa del lavoro ben fatto!

Cosa farò da grande?

Cosa farò da grande? La risposta a questa domanda ha una varietà di risposte che cambia con l’avanzare degli anni? Da piccoli diamo risposte fantasiose e creative (o lungimiranti, dipende dai punti di vista) come “l’astronauta”, quando cresciamo un po’ fantastichiamo di emulare personaggi dello sport, del cinema o anche dei cartoni animati (dipende dall’età e dalla capacità di sognare e di osare); quando arriviamo all’età in cui possiamo davvero scegliere la risposta diventa più difficile.

Nel momento della nostra vita in cui possiamo davvero scegliere siamo incerti, imbarazzati e spesso anche molto preoccupati della nostra scelta. Sarà quella giusta? Come andrà il mercato del lavoro? Punto alla carriera o a una posizione che assicuri tranquillità? Umanistico o scientifico? La risposta la cerchiamo sempre nel futuro cercando di indovinare che cosa accadrà per capire che cosa fare oggi. E siccome non è facile, ci si affida a chi sa, o dice di sapere, come andranno le cose. I più razionali si affidano agli economisti, quelli più emotivi agli psicologici e quelli meno furbi ad astrologi e cartomanti. Ma prevedere il futuro è, dalla notte dei tempi, impresa ardua che a nessuno è mai riuscita granché bene (tranne in qualche racconto mitologico e in alcuni film).

Ho l’impressione però che in questo processo di interpretazione del futuro e scelta delle nostre priorità, saltiamo un passaggio. Che è quello dell’analisi di ciò che abbiamo intorno, di quel che accade nel mondo: in realtà il futuro, spesso, ha già un sacco di indizi nel presente. Come segnala Annamaria Testa in uno dei suoi sempre notevoli post, c’è un video, dal titolo “Did you konw?“, che illustra bene questo aspetto segnalando con numeri e dati ciò che sta accadendo adesso nel mondo, sfatando miti, leggende e false convinzioni che troppo spesso non lasciano un po’ troppo all’oscuro la nostra consapevolezza.

Recuperare più informazioni, cercare di capire qualcosa in più non solo di quello che studiamo a scuola (o all’università) ma anche di ciò che accade nel mondo e come si trasforma la società può aiutarci davvero a capire che posto avremo noi nel mondo. Perché c’è una risposta che nessuno può darci a una domanda che, a dir la verità, spesso non ci facciamo: non è “Cosa farò da grande? ” ma, forse più acutamente, è “cosa sarò da grande?

È nel lavoro il senso della vita?

Sul tema del lavoro, c’è un libro uscito quest’anno di un noto sociologo italiano (Domenico De Masi) che si intitola “Lavorare tutti, lavorare gratis” che pone, tra le altre, una questione importante in questi tempi in cui la disoccupazione sembra non essere più di tanto arginabile: perché pretendere un comportamento e un’etica ritagliati sul lavoro quando il lavoro viene negato? Il libro non l’ho letto, l’ho comprato da poco ve ne renderò conto più avanti, ma già il titolo mi ha riportato alla mente un pensiero che mi frulla in testa da tempo. Mi chiedo sempre più spesso se ciò che restituisce senso e significato alla nostra vita sia quasi esclusivamente il lavoro.

Una possibilità diversa ci può essere ed è ben spiegata in questo articolo comparso sul The Guardian. La considerazione da cui parte lo storico Yuval Noah Harari è simile a quella di De Masi e a pensarci bene è abbastanza semplice: il lavoro a cui ci siamo abituati per tanto tempo sta scomparendo; quello inteso come fatica, impegno, energia profusa a fronte di una ricompensa sembra manifestare tutte le caratteristiche di una crisi profonda. L’intelligenza artificiale, l’automazione robotica, la digitalizzazione di molti processi oltre a fornire vantaggi economici, elidono mano a mano un sacco di lavori. Le “macchine” (che termine novecentesco!) stanno sostituendo l’uomo ma ancor di più: gli algoritmi stanno imparando a fare cose che faceva l’uomo. La questione non è, come scrive, Harari, creare nuovi posti di lavoro ma creare posti di lavoro che gli uomini possano fare meglio degli algoritmi.

Il passaggio successivo della riflessione è: ma se ci tolgono il lavoro che cosa facciamo? E, oltre alla necessità di trovare una soluzione materiale per la sopravvivenza, come reagiamo se scompare un pezzo così importante della costruzione della nostra identità, sociale e individuale? Avrà ancora senso l’articolo 1 della nostra Costituzione che recita “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”? A me piace la “soluzione” che propone Harari perché mi fa sperare che il lavoro non sarà per sempre il nostro punto di riferimento. A sostituire il lavoro nel dare senso alla nostra vita sarà la nostra capacità di occupare mente e cuore in attività che ci possano gratificare come accade con il lavoro, che ci coinvolga e ci appassioni a tal punto da farci sentire contenti e soddisfatti. L’unica capacità che abbiamo e può aiutarci in questo è la stessa che ci fa credere in una religione così come ci coinvolge in un videogame: è la nostra immaginazione. Il significato della nostra vita è generato dalla nostra immaginazione, non dal nostro lavoro. Che ne pensate?

Unione Europea

Europa: 60 anni e tutta la vita davanti

Proprio in questi giorni festeggiamo i 60 anni dell’Europa unita, di cui diamo spesso per scontato i risultati e i vantaggi, concentrandoci sui limiti e sulle criticità. Dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale, i principali paesi europei coinvolti si sono convinti che bisognava condividere ciò per cui si era combattuto fino a quel momento, a cominciare dal carbone e l’acciaio, e inaugurare un modo diverso di risolvere le conflittualità e i contrasti, per favorire la crescita e il benessere di tutti, naturalmente con reciproco vantaggio.

La ricorrenza è la firma dei trattati di Roma, il 25 marzo del 1957, da parte dei leader dei paesi fondatori (tra cui, vale la pena ricordarlo, l’Italia), i primi documenti ad aprire la strada a tutti gli accordi poi sottoscritti dai paesi membri, per raggiungere insieme degli obiettivi concordati e condivisi.

Si è cominciato con l’istituzione di un mercato comune in cui persone, beni, servizi e capitali potessero circolare liberamente: in un periodo di grande povertà e fame diffusa, qual’era il secondo dopoguerra, questa apertura ha creato le condizioni per la prosperità e la stabilità nei paesi che via via hanno aderito all’Unione.
Sulla base di questi accordi e dei valori comuni l’Unione è cresciuta includendo sempre più paesi, e ha assicurato a 500 milioni di cittadini un crescente benessere economico e sociale. Dato che siamo a fine marzo, il mese convenzionalmente dedicato ai discorsi sulla parità di genere, è utile ricordare anche che l’Europa è un precursore e un promotore dell’uguaglianza di genere e vanta un tasso di occupazione femminile crescente.

Oggi l’UE è un luogo in cui i cittadini possono esprimere liberamente la propria diversità culturale, possono viaggiare, studiare e lavorare al di là delle frontiere nazionali, cioè ovunque vengano loro offerte migliori condizioni di vita e sviluppo professionale. A 30 anni dall’istituzione di questo programma, sono 9 milioni i giovani europei che, con l’Erasmus, hanno beneficiato di soggiorni studio e scambi professionali, migliorando così le possibilità di ottenere un posto di lavoro di qualità, e le proprie condizioni di vita.
Insieme alle celebrazioni per questi 60 anni pace (anche se la pace non è solo assenza di guerra) si sta avviando un processo di consultazione e revisione delle strategie da adottare per affrontare le numerose nuove sfide e difficoltà. Dopo le celebrazioni per l’anniversario, la Commissione presenterà una serie di documenti di riflessione su questioni cruciali per l’Europa (lo sviluppo della dimensione sociale dell’Europa; l’approfondimento dell’unione economica e monetaria; la gestione della globalizzazione; il futuro della difesa dell’Europa; il futuro delle finanze dell’UE), anche in vista delle prossime elezioni del Parlamento europeo del giugno 2019.

Oggi, ad esempio, un terzo del budget europeo viene speso per la coesione economica e sociale, ma è chiaro che questo impegno non basta ancora, e non basta solo questo, per raggiungere gli obiettivi che ci siamo dati in termini di lotta alla povertà, integrazione, creazione di (buoni) posti di lavoro e maggiori investimenti, per non parlare di tutta la parte riguardante la sostenibilità, anche ambientale, dell’economia dell’UE.

Insomma, il percorso intrapreso, mai facile, è ancora lungo e pieno di ostacoli e difficoltà da superare, ma dato che molti problemi sono comuni, lavorare insieme per soluzioni comuni e condivise può dare risultati migliori che chiudersi in un isolamento che ci rende solo più deboli.
Vi lascio con un breve test sull’UE, solo per ricordarci che spesso ne parliamo senza saperne granché, ma che migliorare si può, e in modo semplice!

lavoro caccia al tesoro

Il lavoro è una caccia al tesoro

Realizzare attività di orientamento professionale è un’attività molto simile ad una caccia al tesoro: abbiamo degli indizi, sappiamo cosa cerchiamo ma spesso non sappiamo cosa in realtà troveremo. Da un certo punto di vista questo setting potrebbe anche essere molto divertente; qualche volta invece risulta preoccupante e genera ansia e preoccupazione. La questione però è: c’è un tesoro alla fine del percorso? Rispondere a questa domanda è, secondo me, un po’ il cuore di un’attività di orientamento professionale. Quello che bisogna dire è che la risposta potrebbe non essere scontata come accade in un film o una storia con il lieto fine a tutti i costi (che poi, diciamolo, sono anche le storie meno affascinanti).

Trovare lavoro non è partecipare a una caccia al tesoro che qualcun altro ha architettato, ma costruire autonomamente un proprio percorso alla fine del quale il tesoro ce lo mettiamo noi. Quando nei primi giorni dell’anno abbiamo ospitato i ragazzi di una classe all’ultimo anno delle superiori, siamo partiti proprio con l’intento di individuare e disegnare lo scenario migliore in cui muoversi. Per farlo il modo migliore è quello di provare a confrontarci con noi stessi prima di tutto e chiederci: che cosa vogliamo diventare? Quali sono gli aspetti della nostra vita che maggiormente ci gratificano? Quali competenze ci rendono migliori di quello che siamo? Quando succede che stiamo bene con gli altri? Non sono domande esistenziali, ma gli unici interrogativi che davvero hanno un senso se vogliamo evitare che qualcuno ci trovi un posto nel mondo ma, realmente, quel posto vogliamo sceglierlo.

Questa parola, scegliere, troppo spesso finisce nell’ambito delle cose che solo qualcuno può permettersi, nella sezione delle nostre esperienze proibite oppure tra le cose a cui diamo poco importanza. E invece sarebbe il caso. soprattutto se siete giovani, che questa parola la rivalutaste un pochino. Discutevo l’altro giorno con alcuni “under 30” (li definisco così perché ultimamente la parola “giovani” faccio fatica a capire quando va utilizzata) ed è uscito questo concetto: qui non abbiamo abbastanza opportunità, dobbiamo accontentarci perché non abbiamo alternative e ogni proposta, anche la meno affascinante professionalmente, è meglio di niente. Questa condizione l’abbiamo definita, di “disperazione” (tra virgolette, perché la disperazione vera in realtà è fatta di altre ben più marcate sofferenze). Ecco io dico che le scelte che facciamo per “disperazione” non sono mai le scelte migliori. Sono giustificabili in quel momento, comprensibili per quel contesto ma mai auspicabili.

Accettare un lavoro umile e senza prospettive perché sono “disperato” non è la stessa cosa che farlo perché fa parte della mia strategia per raggiungere un risultato diverso. E non sto parlando di una strategia di carriera professionale, ma più in generale di come vogliamo impostare la nostra vita. Trovo che i tempi che viviamo siano già abbastanza duri ed emotivamente faticosi per evitare che noi per primi ci mettiamo il carico della nostra “disperazione”. C’è un libro che ho consigliato di leggere ai ragazzi con cui ho parlato che si intitola “Il potere è noioso” di Alberto Forchielli (lo trovate qui, leggete la sinossi), l’ho appena iniziato e ci sono due cose che mi piacciono e trovo che possano essere di incoraggiamento. La prima è l’invito a essere ostinati, fino a quasi a cacciarsi nei guai, pur di far sapere al mondo che esistiamo e abbiamo un valore (scrive l’autore “non litigate mai con un sottoposto, ma sempre con chi sta sopra di voi. Altrimenti, dove starebbe il divertimento?“). La seconda è la possibilità di ampliare gli orizzonti, di non guardare solo al qui e ora, al piccolo contesto che ci circonda; uscire e viaggiare (anche fosse solo attraverso internet (“se non avete tempo o soldi per viaggiare fisicamente, fatelo sull’iPad“) può farci scoprire cose incredibili… su noi stessi!

sociale

Referendum costituzionale: modalità per votare

Domenica 4 dicembre si terrà il referendum sulla riforma costituzionale in Italia. Le operazioni di voto per il referendum costituzionale si svolgeranno dalle ore 7 alle ore 23, a seguire lo scrutinio.

In tale occasione gli italiani sono chiamati a votare un referendum costituzionale per approvare o respingere la riforma della costituzione.

Ricordiamo che per la validità del referendum costituzionale confermativo non è previsto dalla legge un quorum di validità. A differenza che per il referendum abrogativo, non si richiede, che alla votazione partecipi la maggioranza degli aventi diritto al voto. L’esito è valido indipendentemente dalla percentuale di partecipazione degli elettori.

Vediamo nel dettaglio quale il quesito che troveremo stampato sulla scheda:

Approvate il testo della legge costituzionale concernente «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione» approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?

Per poter votare al referendum l’elettore deve presentarsi al seggio con la sua tessera elettorale e con un documento di riconoscimento al fine di essere identificato.

La tessera elettorale è il documento che consente l’esercizio del diritto di voto, questa viene rilasciata al momento dell’iscrizione nelle liste elettorali del Comune.

Per il rilascio delle tessere elettorali, dei duplicati, di una nuova tessera qualora siano esauriti gli spazi, è necessario rivolgersi al personale dell’Ufficio Elettorale, magari qualche giorno prima del referendum, nonostante anche il giorno stesso saranno previste aperture straordinarie.

La legge prevede che possano votare in Italia fuori del comune di residenza solo alcune categorie di elettori. Quelli ricoverati in ospedali e case di cura, militari, naviganti e tutti coloro che prestano servizio al seggio, cioè i componenti dell’Ufficio elettorale di sezione, le Forze dell’ordine e i rappresentanti di partito e di comitato promotore del referendum, designati dai partiti e dai comitati stessi.

Chi non rientra in tali categorie può votare nel seggio di iscrizione elettorale del comune di residenza, usufruendo di agevolazioni tariffarie per viaggi in treno, aereo o nave (ad esempio tutti gli studenti fuori sede).

Gli elettori residenti all’estero hanno la possibilità di venire a votare in Italia. Anche chi si trovi temporaneamente all’estero (periodo minimo di tre mesi), per motivi di lavoro, studio o cure mediche ha la facoltà esercitare il diritto di voto per corrispondenza nella circoscrizione estero previa espressa opzione. Tutte le casistiche sono consultabili sul sito del Ministero dell’Interno. Ma per il referendum costituzionale del 4 dicembre l’indicazione della scelta doveva pervenire al comune d’iscrizione nelle liste elettorali entro il giorno 8 ottobre 2016 (con possibilità di revoca entro lo stesso termine).

Votare è un diritto, reperire le informazioni utili in tempo, permette di esercitarlo!

La tecnologia fa perdere posti di lavoro (è una bugia)

tecnologia lavoroSe tra chi legge questo blog c’è qualcuno esperto o amante di storia forse ha già capito dove vogliamo andare a parare. Sicuramente saprà che cosa si intende per rivoluzione industriale e che cosa questa ha comportato nella storia dell’intero pianeta nel quale viviamo. C’è chi afferma che in questi anni stiamo vivendo una rivoluzione simile, grazie all’informatica e alle tecnologie digitali. Quando utilizziamo il termine rivoluzione intendiamo qualcosa che, anche se lentamente, stravolge completamente il mondo (e il modo) in cui siamo abituati a vivere. Per intenderci, la rivoluzione industriale ha avuto come effetti, tra gli altri, la possibilità di avere la corrente elettrica nelle case (immaginate oggi di poterne fare a meno?) e di trasformare il mondo produttivo (negli Stati Uniti gli occupati nell’agricoltura sono passati dal 90% al 2%). Che cosa sta accadendo oggi? E che effetti potrebbe avere quella attuale se fosse una vera rivoluzione tecnologica?

Nel numero di Internazionale di questa settimana c’è un dossier (quello di copertina) che racconta in qualche modo proprio questa storia. Il titolo dell’articolo è “Il capitalismo dei robot” e la questione che vi è raccontata potremmo riassumerla in questa semplice domanda: la tecnologia sta togliendo posti di lavoro? Per trovare una risposta a questa domanda senza essere banali e frettolosi bisogna analizzare un po’ meglio la questione. Prima di tutto l’informatica ha un grande potenziale perché è in grado di auto-apprendere grazie alla sua incredibile capacità di fare calcoli e, soprattutto, di farli in maniera sempre più veloce (provate a leggere, se non la conoscete, la teoria detta legge di Moore). La conseguenza è che grazie a questa “abilità” il processo di sostituzione macchina/uomo riguarda con una certa facilità tutti i processi che sono ripetitivi ed ancor di più se si tratta di lavori faticosi e logoranti per i quali l’uomo ha come limite la propria resistenza. Il terzo punto riguarda l’automazione: grazie alla potenza di calcolo sempre più grande le “macchine” riescono a fare lavori sempre più complessi. A guardare  questo video sui robot Kiva nei magazzini di Amazon ci si rende subito conto di come possa essere importante l’influenza dei robot nel lavoro: quello che queste macchine fanno in maniera del tutto automatica non più di 10 anni fa era il lavoro di operai in un numero di almeno 5 volte superiore. Operazioni semplici, faticose, ripetitive: il massimo per un robot comandato da un computer.

La sostituzione riguarda soltanto i lavori manuali? Non si direbbe: i bancomat e le casse automatizzate hanno sostituito gran parte dei cassieri di banca e ci sono una serie di strumenti tecnologici (con relative applicazioni) che possono sostituire con una certa facilità il lavoro di una segreteria organizzata (chi ha più bisogno di una segretaria che gestisce gli appuntamenti quando esiste GoogleCalendar?). Considerato che la potenza di calcolo che 30 anni fa aveva un calcolatore dal costo di milioni di dollari grande come un magazzino oggi ce l’ha una PlayStation3, ci sarebbe da scommettere che nei prossimi lustri (pochi) le macchine avranno sostituito completamente gli uomini (e le donne) nella stragrande maggioranza dei lavori. Ora sta tutto nel decidere se questa è una bella o brutta notizia.

Per prendere questa decisione bisogna fare ancora un passo indietro (la storia spesso aiuta sia la scienza che l’economia). Quando negli Stati Uniti l’agricoltura ha perso la maggior parte dei suoi addetti che cosa è successo? La popolazione è diminuita drasticamente? C’è stata una disoccupazione epica? Non è andata così. Quello che è successo è che le persone hanno dovuto imparare a fare lavori nuovi e al contempo sono nati nuovi settori, nuove professioni, nuovi impieghi. Il problema è che la faccenda non è stata automatica e nemmeno immediata. Secondo J.M. Keynes in queste epoche di passaggio in cui l’innovazione tecnologica ha trasformato la società e l’economia, l’adeguamento delle “risorse umane”non ha viaggiato alla stessa velocità, è stato più lento. Questa asimmetria, tra la velocità del progresso e quella dell’adeguamento della popolazione, genera situazioni di mancato equilibrio ed anche un certo senso di smarrimento in chi vive durante il passaggio. Ci sembra che sia un po’ quello che ci sta capitando oggi: non possiamo dire che la tecnologia non sia utile e benefica, ma al contempo facciamo fatica a crederlo quando ci accorgiamo che è anche la causa della perdita di posti di lavoro. Il consiglio che la storia ci regala è che in questi frangenti ci sono solo un paio di cose che tendenzialmente sembrano giuste da fare: la prima è quella di interessarsi, conoscere e imparare a utilizzare la tecnologia; l’altra è di evitare di pensare che le cose che sono andate sempre in una certa maniera continueranno a funzionare sempre così. Questa rigidità, soprattutto se applicata alle scelte che ci riguardano da vicino come quella di un percorso professionale, potrebbe risultare pericolosa. Come facciamo ad accorgercene? Per esempio, se qualcuno di voi sogna ancora di fare il cassiere di banca forse è bene che prenda in considerazione qualche altra prospettiva 🙂

Il lavoro non è un posto in cui stare

man asleep deskGià ora ed ancora di più nei prossimi anni, ciò che maggiormente conterà non saranno qualifiche e titoli per “stare” in un certo posto di lavoro. Ma, più realisticamente, capacità e competenze espresse durante il lavoro. Le due cose non sono uguali e non ho nemmeno scontato che la seconda sia diretta conseguenza della prima. Vista da un altro punto di vista potremmo dire che l’epoca del posto che dura tutta la vita è finita, ma la nostra impiegabilità ha ancora qualche chance. Che cos’è l’impiegabilità? Non è un concetto nuovo e nemmeno troppo sconosciuto, solo che rappresenta un concetto che fa fatica ad entrare nella nostra cultura e nel nostro modo di vedere e valutare il lavoro.

L’impiegabilità (od occupabilità) la potremmo definire come quell’insieme di competenze e capacità di un lavoratore che che ne fanno un soggetto in grado di soddisfare bisogni ed esigenze di un potenziale datore di lavoro, che lo rendono appetibile, se non addirittura necessario. Questo vuol dire che quell’insieme di capacità e competenze hanno alcune caratteristiche: sono adeguate al mercato, sono utili per risolvere problemi reali delle imprese e delle organizzazioni del mercato, sono aggiornate. E, per finire, non è detto che questo insieme sia fatto sempre dagli stessi elementi (quindi capacità e competenze cambiano con il tempo ed il cambiare del mercato).

Ora capite che in un sistema come quello italiano in cui il lavoro è un posto che si conquista e poi si mantiene per tutta la vita a prescindere, questo concetto di mutevolezza e aggiornamento non sempre suona bene: cambiare ed aggiornarsi significa mettersi in discussione, imparare cose nuove, sviluppare un certo percorso ma anche fare più fatica, impegnarsi maggiormente, superare esami, risolvere problemi, superare difficoltà. Un abella sfida ma forse, per qualcuno, anche una bella scocciatura. Unito a questi aspetti ce ne è anche un altro: in futuro saranno apprezzati non soltanto coloro che avranno nozioni consistenti, ma anche chi saprà mettere a frutto in campo professionale doti come la perspicacia, la creatività, l’empatia. Carl Benedikt Frey che ad Oxford lavora come ricercatore sul tema dell’impatto della tecnologia sul lavoro, afferma che “i lavori che vedranno una crescita costante sono quelli che si basano  in gran parte sull’intelligenza sociale e creativa”. Questa è una buona notizia per due motivi.

Il primo motivo è che queste doti le possiamo acquisire tutti a prescindere dal tipo di studio, percorso formativo che abbiamo intrapreso o dalle esperienze che hanno segnato la nostra professionalità. Il secondo motivo è che il suddetto ricercatore oxfordiano ha anche individuato quelli che ha definito “colli di bottiglia”, ovvero aree e competenze nelle quali la tecnologia fa fatica a raggiungere e stare al passo con il lavoro umano. I colli di bottiglia sono tre: l’intelligenza personale, la creatività e la manipolazione di precisione che le macchine ancora non sanno fare bene. I lavori che richiedono un alto livello di competenze sociali e di creatività sono difficilmente automatizzabili. Per fare un esempio pratico ci spostiamo nel campo della medicina. L’elaborazione di algoritmi sempre più complessi col tempo riesce a diminuire drasticamente il lavoro di diagnosi di un dottore, ma intensifica sempre di più il suo ruolo di dispensatore empatico di cure. Per trovare lavoro, quindi, la strategia non deve essere più quella di cercare e conquistare un posto in cui “sedersi”, ma quella di sviluppare una serie di competenze da distribuire.