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Contratto a chiamata, intermittenza, job on call

Il contratto a chiamata è una tipologia di contratto alternativo per inquadrare le prestazioni di lavoro occasionale. Quando il datore di lavoro ha necessità di servirsi di alcune mansioni svolte da un soggetto, senza tuttavia la necessità di instaurare con lo stesso un rapporto di lavoro continuativo, è possibile attivare il contratto a intermittenza, a chiamata o lavoro intermittente In inglese job on call, introdotto dalla famosa Legge Biagi, poi modificati a seguito della riforma del lavoro Jobs Act di Renzi.

Questo contratto non prevede un impegno continuo e costante del lavoratore, ma l’azienda o il datore di lavoro lo possano chiamare quando ne hanno effettivamente bisogno; è un tipo di contratto di lavoro subordinato, in quanto i tempi e il modo in cui deve essere svolta la prestazione, sono decisi dal datore di lavoro.

Quindi il presupposto fondamentale, su cui si fonda questo contratto è l’intermittenza. Quando è stato introdotto aveva l’obiettivo soprattutto di regolarizzare le “giornate” tipiche di chi lavora nei ristoranti, nei bar, magari anche durante i congressi. In tutti quei settori, come il turismo, la ristorazione, lo spettacolo dove il lavoro non è sempre così stabile e continuo, anche in contesti diversi che riguardano gli addetti al centralino, alla reception.

l contratto a chiamata può essere a tempo determinato: quando il contratto ha una precisa scadenza; a tempo indeterminato: quando il contratto non ha scadenza.

l contratto a chiamata può essere stipulato in due casi: per esigenze di prestazione di carattere discontinuo o intermittente secondo quanto specificato all’interno contratti collettivi nazionali anche con riferimento allo svolgimento di prestazioni in periodi determinati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno. In questo caso la causale è oggettiva ed è possibile individuare determinati periodi in cui si svolgerà il lavoro.

Oppure per lavoratori di età inferiore ai 24 anni o superiori a 55. Le prestazioni a chiamata si devono comunque concludere entro il compimento del 25 esimo anno. In questi casi, la causa è soggettiva.

l contratto a chiamata può essere di due specie:

  • con garanzia di disponibilità che ti obbliga contrattualmente a rispondere alle chiamate una volta che arrivano, percepisci una sorta di compenso durante il periodo di inattività – ossia quando non ti chiamano e non lavori. Tale indennità è stabilita dai contratti collettivi di lavoro e non può essere inferiore al 20% del minimo tabellare, indennità di contingenza, ratei di mensilità aggiunti e previsto per quel tipo di mansione.
  • Senza garanzia di disponibilità: il lavoratore è libero di accettare o meno di fare quel lavoro e non è obbligato a rispondere positivamente alla chiamata. Viene pagato per le chiamate accettate.

Ogni volta che chiama, il datore di lavoro ha l’obbligo, di dare una comunicazione amministrativa preventiva via SMS se la prestazione deve essere espletata entro le successive 12 ore alla chiamata,o e-mail. Per i datori di lavoro che non rispettano le regole della comunicazione preventiva, sono previste delle sanzioni

La durata massima del contratto a intermittenza non può superare i 400 giorni in 3 anni, fatta eccezione di alcuni settori, quali:Il settore del turismo;dei pubblici esercizi; dello spettacolo. Nel caso in cui, il lavoratore a chiamata, dovesse superare il suddetto limite di durata, il contratto si trasforma in automatico in un contratto a tempo indeterminato full time, ad esclusione dei settori sopra elencati.

Il lavoratore, può avere più contratti a chiamata contemporaneamente purché:non vi sia concorrenza tra le due imprese e sia possibile lo svolgimento dei due lavori.

Il contratto a chiamata, per essere valido deve essere scritto, deve indicare la durata del contratto (det.o indet.) la causale (oggettiva o soggettiva), luogo e modalità di svolgimento, il preavviso di chiamata ed il trattamento economico con o senza eventuale indennità di chiamata, le modalità di chiamata del lavoratore ed eventuali norme sulla sicurezza del lavoro.

Infine un accenno alla retribuzione del contratto a chiamata, questa è regolata dal principio di proporzionalità, nel senso che al lavoratore a chiamata deve essere riconosciuto uno stipendio analogo ad un altro lavoratore di pari livello con le stesse mansioni, anche se assunto con altro tipo contratto.

Essendo un contratto subordinato, si maturano ferie e permessi in proporzione alle giornate lavorate,il datore di lavoro deve versare i contributi a fini pensionistici in maniera proporzionale alle ore effettive di lavoro effettuare dal lavoratore, così come per il TFR il trattamento di fine rapporto.

Vista l’esistenza di questo tipo di contratto e soprattutto il target  ed i settori a cui è rivolto riteniamo sia utile presentarlo tra le tipologie contrattuali durante i laboratori sui contratti di proposti agli insegnanti di orientamento delle scuole superiori. I servizi dell’Informagiovani in forma di workshop o individuali sono gratuiti quindi per saperne di più potete contattarci come gruppo classe o individualmente.

Fundraiser

Fundraiser: alla scoperta di questa “nuova” professione

Quante volte abbiamo letto o sentito parlare di fundraiser o più in generale di fundraising (attività di raccolta fondi)? Cerchiamo di fare chiarezza e comprendere di cosa si occupano i professionisti di questo settore. Con la definizione di fundraiser indichiamo la figura esperta nella raccolta di fondi e finanziamenti per una determinata finalità, solitamente per lo sviluppo di progetti, iniziative legate alle Organizzazioni Profit e Non Profit.
Il settore del fundraising negli ultimi anni ha conosciuto un notevole sviluppo, presumibilmente dovuto alla difficoltà generale che numerose aziende e organizzazioni hanno riscontrato nel reperire delle risorse per nascere e svilupparsi. Fatta questa piccola premessa, iniziamo ad osservare più da vicino l’origine del crescente interesse per la figura del fundraiser.

L’Associazione Italiana Fundraiser ASSIF definisce, nell’articolo 1 del proprio Regolamento, la figura del fundraiser come colui che opera in modo professionale ed etico, remunerato o a titolo gratuito, nella definizione e realizzazione delle strategie di comunicazione sociale, marketing sociale e raccolta fondi per organizzazioni del non profit. Il ruolo di fundraiser è un ruolo cruciale: grazie al suo operato garantisce la sostenibilità finanziaria ed economica dei progetti stessi, rendendoli in definitiva realizzabili. Esistono 4 tipologie di fundraiser descritte all’interno del sito dell’Associazione:

  • Fundraiser professionista: è il manager della raccolta fondi; si occupa della pianificazione strategica e coordina l’intera attività di raccolta fondi;
  • Professionista del fundraising: si occupa della pianificazione (talvolta anche della realizzazione concreta) di aspetti tecnici del fundraising, come il direct marketing, il database dei donatori, ecc.;
  • Operatore del fundraising: si occupa solo della realizzazione concreta della raccolta fondi, all’interno di uno o più settori specifici del fundraising;
  • Consulente di fundraising: come il fundraiser professionista accompagna, anche se dall’esterno, l’organizzazione nella pianificazione strategica dell’attività di fundraising, di alcuni particolari ambiti (corporate, lasciti testamentari ecc.) o di specifici progetti; solitamente non si occupa di operatività.

ASSIF ha redatto un proprio codice etico di riferimento, in cui sono esplicitati chiaramente i rapporti fra i soci ASSIF, i rapporti con le organizzazioni non profit e gli atri beneficiari, le modalità di utilizzo delle risorse remunerazioni, i rapporti con i donatori ecc.

Il fundraiser si occupa di analizzare la “mission” dell’organizzazione per cui lavora, cioè l’obiettivo/progetto di tale ente, è in grado di analizzare e classificare i donatori e le modalità di raccolta fondi e naturalmente è impegnato in un monitoraggio costantemente per verificare il raggiungimento degli obiettivi ed eventualmente l’individuazione delle azioni correttive.

Per chi avesse intenzione di intraprendere questa carriera, quale formazione è suggerita? In generale possiamo affermare che il percorso formativo del fundraiser si colloca tra la sfera economica, giuridica e della comunicazione, nello specifico corsi di laurea in campo delle pubbliche relazioni e scienze della comunicazione, economia aziendale e il marketing. Negli ultimi anni con lo sviluppo di un mercato sempre più competitivo, si consiglia di intraprendere anche un percorso post laurea in fundraising, soprattutto in digital fundraising (ricordate che il web per quest’attività è fondamentale!). L’elenco dei percorsi universitari e master sono in continua crescita non resta che iniziare la ricerca. Per chi invece avesse il semplice interesse nell’approfondire la tematica, esiste una vasta scelta di libri che la trattano come ad esempio “Professione Fundraiser” di Elena Zanella tanto per citarne uno. Oltre ciò esistono dei veri e propri “Festival del Fundraising” nazionali ed internazionali ai quali partecipare.

Un buon fundraiser è in possesso di una personale attitudine estroversa,  è costantemente proiettato verso tipologie di attività che prevedono uno stretto contatto con il pubblico e sicuramente è particolarmente sensibile e interessato al mondo delle organizzazioni non profit a creare investimento sociale partenariati su buone cause e progetti di alto impatto sociale.

tirocini

Tirocini extra curriculari

I tirocini formativi e di orientamento rappresentano una delle modalità per accedere al mondo del lavoro, una forma d’inserimento temporaneo dei giovani, al fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro per agevolare le scelte professionali attraverso la conoscenza diretta del mondo produttivo. I rapporti che i datori di lavoro privati e pubblici hanno con i soggetti da essi ospitati non costituiscono rapporti di lavoro.

Si possono distinguere in due categorie: i tirocini curriculari ed extra curriculari.

I primi sono inseriti in programmi di alternanza scuola-lavoro o legati alle attività di istituti professionali, inclusi nei piani di studio dell’Università e degli istituti scolastici sulla base di norme regolamentari, esperienze previste all’interno di un percorso formale di istruzione o di formazione.

I tirocini extra curriculari: previsti e realizzati a favore di coloro che hanno appena completato il percorso formativo, neo-diplomati o neo-laureati, o che appartengono a fasce deboli al fine di agevolare le scelte professionali attraverso la conoscenza diretta del mondo del lavoro e la creazione di un’opportunità concreta per acquisire una specifica professionalità.

Le linee guida sottoscritte il 24 gennaio 2013 in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome  di Trento e Bolzano forniscono un quadro di riferimento comune a tutte le Regioni indicano alcuni standard minimi di disciplina. La Regione Marche, con DGR n. 1134 del 29/07/2013, ha approvato i nuovi principi e criteri applicativi per i tirocini extra curriculari. Il materiale relativo è disponibile e scaricabile dalla pagina Tirocini della Regione Marche.

Con la delibera regionale si ribadisce che il tirocinio viene definito come una misura formativa di politica attiva, non configurata come rapporto di lavoro, finalizzata a creare un contatto diretto tra un soggetto ospitante e il tirocinante allo scopo di favorirne l’arricchimento del bagaglio di conoscenze, l’acquisizione di competenze professionali e l’inserimento o il reinserimento lavorativo.

Di conseguenza i soggetti coinvolti sono: il tirocinante (disoccupato iscritto al CIOF e che non ha avuto precedenti rapporti di lavoro con il soggetto ospitante), il soggetto promotore ( Centro per l’impiego Ciof, Agenzia di lavoro, Cooperative sociali, Enti di formazione), soggetto ospitante (datori di lavoro privati e pubblici che non potrà realizzare più di un tirocinio con il medesimo tirocinante) e tutor.

Le tipologie di tirocinio previste sono quattro:

La prima, con finalità orientativa e formativa, è finalizzata ad agevolare le scelte professionali e l’occupabilità dei giovani nel percorso di transizione tra la formazione (scuola/università/formazione professionale) e lavoro, attraverso una formazione a diretto contatto con il mondo del lavoro. I destinatari sono le persone che hanno conseguito un titolo studio negli ultimi dodici mesi.

La seconda tipologia riguarda i tirocini di inserimento o di reinserimento al lavoro,  rivolti principalmente a disoccupati, persone in mobilità e inoccupati, ma attivabile anche in favore di lavoratori in cassa integrazione, sulla base di specifici accordi in attuazione delle politiche attive del lavoro per l’erogazione degli ammortizzatori sociali.

La terza tipologia riguarda i tirocini di orientamento e formazione o di inserimento e reinserimento in favore di persone svantaggiate (legge n. 381/91) nonché richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale.

La quarta tipologia riguarda i tirocini di orientamento e formazione o di inserimento e reinserimento in favore di persone con disabilità (ai sensi dell’art. 1, comma 1, della legge n. 68/1999).

Le novità più rilevanti introdotte sono relative alla: durata massima, attestazione dei risultati, indennità minima e monitoraggio.

La durata massima dei tirocini è di 6 mesi, comprensiva delle eventuali proroghe e al netto di eventuali sospensioni per maternità, malattia lunga o infortunio. Per i soggetti svantaggiati e per i disabili è previsto che la durata possa essere rispettivamente di 12 e 24 mesi.
Al termine del tirocinio il soggetto promotore, anche sulla base della valutazione del soggetto ospitante, dovrà rilasciare al tirocinante un’attestazione dei risultati sulla base di uno schema previsto dalla delibera regionale, specificando le competenze acquisite con riferimento ad una qualificazione prevista; qualora il tirocinante abbia partecipato ad almeno il 75% della durata prevista dal progetto formativo l’esperienza di tirocinio dovrà essere registrata sul libretto formativo del cittadino.

A tutti i tirocinanti dovrà essere corrisposta un’indennità per la partecipazione al tirocinio di importo non inferiore a 350,00 euro lordi mensili, al superamento della soglia del 75% delle presenze mensili stabilite dal progetto formativo.
Inoltre  la Regione Marche promuoverà un monitoraggio per analizzare le caratteristiche anagrafiche e professionali dei tirocinanti, la diffusione dei tirocini a livello regionale e i risultati occupazionali post tirocinio.

I soggetti ospitanti possono accogliere tirocinanti, in proporzione alla loro dimensione: un tirocinante con un numero di dipendenti a tempo indeterminato compreso tra zero e cinque; due tirocinanti con un numero di dipendenti a tempo indeterminato compreso tra sei e venti; tirocinanti in misura non superiore al dieci per cento con un numero di dipendenti a tempo indeterminato superiore a ventuno.

Per cercare opportunità di tirocini segnaliamo alcuni dei siti da poter consultare:

Cliclavoro (tra le news in home page), siti aziendali, siti dei Centri per l’impiego (Ciof), sportello stage, repubblicadeglistagisti, lavoro e stage.

Inoltre consigliamo di iscrivervi alla newsletter della formazione per non perdere alcuna opportunità.

futuro-lavoro

Lavoro autonomo: il futuro è laggiù?

Darwin docet: sopravvive solo chi si adatta meglio all’ambiente e ai suoi cambiamenti. Ovviamente, questo vale anche per il multiforme ecosistema del lavoro.

Al netto di quei mestieri che vanno scomparendo in quanto poco appetibili per le nuove generazioni (tra questi ci sono impieghi perlopiù artigianali, come quello di produttore di poltrone e divani, pellicciaio e falegname) ce ne sono molti altri che la tecnologia ha cancellato o modificato al punto da farli diventare irriconoscibili, e non tutti siamo pronti a quello che si sta prospettando sempre più chiaramente nel futuro. Una cosa è certa, soprattutto secondo il  World Economic Forum: il 65% dei bambini che frequentano oggi le scuole elementari svolgeranno lavori che oggi non esistono, alcuni dei quali non riusciamo nemmeno a prevederli.

Ma cos’è che si vede all’orizzonte? Poche ma fondamentali certezze.

Punto primo, già ampiamente dibattuto: il lavoro da dipendente a tempo indeterminato, quello alla Fantozzi fatto di cartellini e fughe da centometrista all’orario di uscita, sarà solo un ricordo per le nuove generazioni; il futuro ci vede come soggetti sempre più attivi e impegnati, più formati e qualificati, ma soprattutto sempre più competitivi. Sembra una prospettiva angosciante, ma in realtà ci viene chiesto solo di essere più consapevoli, in poche parole, meno dipendenti e più autonomi.

E una delle chiavi sembra stare proprio qui: il fatto che sempre più aziende preferiscano avvalersi, invece che dei classici dipendenti, di consulenti esterni, ha fatto sì che molte delle nuove professioni stiano fiorendo proprio nel contesto del lavoro autonomo, in alcuni ambiti più che in altri.
Uno su tutti è ovviamente quello del digitale: quasi superfluo nominarlo, in quanto può essere paragonato al cavallo che traina la carrozza del futuro e quindi del futuro del lavoro; l’infiltrazione sempre più importante della tecnologia nelle nostre vite e in quella delle imprese richiederà un numero sempre maggiore di figure in grado di gestire non solo “il mettere in rete” di un’azienda (dove per “mettere in rete” si intende una moltitudine di cose: dall’avvio di un e-commerce alla gestione efficace dei social, dalla creazione di materiale pubblicitario che sfrutti tutte le potenzialità dell’on-line allo spostare alcuni dei servizi in modalità cloud) ma anche il loro restarci in modo efficace, senza perdersi nell’insidioso oceano del web.
IT security manager, sviluppatore di app, community manager ed esperto di SEO saranno alcune delle figure lavorative più richieste e molte di queste lavoreranno in modo autonomo; al momento per voi sono parole che significano niente? Allora date un’ occhiata qui.

Il progresso tecnologico di questi decenni ha ovviamente “aggredito” tutti o quasi gli ambiti lavorativi, trascinandoli in quella che può essere tranquillamente definita come la quarta rivoluzione industriale; quindi è del tutto ovvio ritenere che la tendenza della sostituzione della tecnologia alla manodopera nei processi produttivi (e non solo) non farà che accrescersi, spazzando via entro pochissimi anni, ben 5 milioni di posti di lavoro tra le prime 15 economie del pianeta.

Di fianco ai nuovi mestieri che nascono nel grembo dell’ Information Tecnology e che volenti o nolenti, saranno tra i pochi a salvare le nuove generazioni dalla disoccupazione, cammina un altro modo di lavorare, che non si deve fare l’errore di pensare sia in contrasto con l’avanzata del digitale: quello dei mestieri artigianali, una nicchia di lavoro (quasi sempre autonomo, per l’appunto) in cui si possono esprimere competenze legate alla creatività e a un “saper fare” che molto difficilmente potranno essere sostituite dalle macchine. Pasticcere, falegname, meccanico, orafo, sono solo alcuni dei lavori di cui stiamo parlando e che spesso vengono messi in secondo piano soprattutto dai giovanissimi (o forse dalle loro famiglie?) credendo siano poco redditizi, mentre un altro dei segreti del lavoro del futuro è quello della nicchia di mercato e della specializzazione, caratteristiche che, nemmeno a dirlo, vanno molto d’accordo con il mestiere artigiano.

Se, oltre a ciò che abbiamo appena presentato, si unisce il fatto che il lavoro autonomo e/o imprenditoriale sta fra le prime scelte dei Millenials che vedono nel diventare imprenditori una delle soluzioni per affrontare il mondo del lavoro esprimendo le proprie competenze e specializzazioni (e titoli di studio), è facile provare a intuire che questo potrebbe essere il modo di lavorare del futuro.

Anche se accostare le parole lavoro e futuro, in questo periodo di transizione tra due modi quasi opposti di intendere il lavoro, getta addosso alle spalle una copertina di ansia, è importante tenere sempre in mente che quasi tutti abbiamo le potenzialità per rinnovarci e se necessario ricostruirci, sempre sfruttando e facendo tesoro del percorso che ci ha portato a sviluppare alcune abilità e caratteristiche.

Potreste cominciare, per esempio, scoprendo cosa offre il mondo della formazione!

 

 

Scelta universitaria: open day

La scelta del corso di laurea e dell’Ateneo in cui studiare non è per niente semplice. Ogni anno tantissimi studenti si trovano davanti a questo bivio: riflettere su cosa seguendo le passioni o le richieste di mercato.

Ancora una volta torniamo a sottolineare quanto l’orientamento sia un momento molto importante da non sottovalutare se si vuole scegliere l’Università che meglio si adatta alle proprie esigenze.

È necessario dedicare un po’ di tempo all’orientamento in modo da riuscire ad individuare il corso migliore per le proprie capacità e per i propri sogni. Infatti il mercato è in continua evoluzione e per quanto si possano fare previsioni, queste sono poco attendibili per sapere cosa sarà più richiesto alla conclusione del percorso di studi, tra “x” anni.

È meglio investire energie per raccogliere il maggior numero di informazioni possibili e attendibili.

Una volta superato l’esame di maturità, chi non ha già effettuato la scelta ha ancora qualche opportunità di orientamento.

Infatti oggi in ogni Ateneo esiste l’ufficio di orientamento che organizza e promuove diverse attività per gli studenti che devono scegliere ed immatricolarsi.

 Un buon modo per risparmiare tempo è partecipare agli Open Day delle Università che sono in programma anche per il periodo estivo.

Gli Open Day , se da un lato sono considerati un’operazione di marketing per le Università, dall’altro se fruttati bene, sono un’ottima opportunità per gli studenti, di chiedere informazioni, entrare in contatto con i docenti, visitare le strutture e confrontarsi con altri studenti.

In queste occasioni è possibile sapere quali sono i corsi a numero chiuso, le scadenze per le iscrizioni, per eventuali borse di studio e sussidi.

Invece di fare un salto nel buio ecco i prossimi appuntamenti da non perdere durante il periodo estivo dedicati a chi sta valutando di iscriverti ad un corso di un ateneo nella regione Marche

L’università Politecnica delle Marche il 19-20-21 luglio organizza: “Guardando al futuro” occasione in cui è possibile anche iscriversi e superare il test di conoscenze, valido per l’immatricolazione a tutti i corsi di laurea ad eccezione di quelli a numero programmato.

L’università di Camerino ha in programma il 20 luglio “Studente per un giorno” e “Porte aperte in Unicam “ nei mesi di luglio ed agosto.

L’università di Macerata organizza gli open day dal 27 luglio al 24 agosto, giornate in cui docenti e tutor saranno a disposizione per la presentazione dei propri corsi di laurea.

Infine l’Università di Urbino promuove alcune attività: incontri individuali e di gruppo, visite guidate ed un servizio di informazione dedicato.

Preparate l’esame di maturità e pianificate la vostra partecipazione agli open day!

TrainingDay Erasmus+ all’Informagiovani!

Martedì prossimo, il 24 gennaio, abbiamo il piacere di ospitare qui all’Informagiovani il TrainingDay Erasmus+ per l’asse VET – Istruzione e Formazione Professionale, realizzato in collaborazione con Eurodesk Italy e Inapp, una delle Agenzie Nazionali per l’attuazione del programma in Italia.

Ma cos’è un TrainingDay?
A differenza di un InfoDay, che si concentra sulla prima informazione sulle possibilità offerte dal programma Erasmus+, sulla sua struttura, obiettivi e beneficiari, il TrainingDay è pensato per chi ne conosce già il funzionamento, ed è interessato o già impegnato nella progettazione.
Il TrainingDay che ospiteremo si concentrerà sul settore Istruzione e Formazione Professionale, individuato anche con l’acronimo VET, che sta per Vocational Education and Training. L’asse VET riguarda le opportunità rivolte a studenti, tirocinanti, apprendisti, neodiplomati e neo qualificati, ma anche a insegnanti, formatori, esperti del mondo della formazione professionale (che sono i primi beneficiari dei progetti finanziati) che attraverso Erasmus+ avranno la possibilità di fare un’esperienza di apprendimento professionale in un altro paese (si parla di mobilità individuale).

Una parte della mattinata sarà poi dedicata ai soggetti (scuole, enti di formazione, organizzazioni della società civile, università) interessati a partecipare a progetti di cooperazione per l’innovazione e lo scambio di buone pratiche transnazionali (chiamati anche partenariati strategici), che hanno l’obiettivo di sviluppare iniziative di cooperazione tra uno o più settori dell’istruzione, della formazione e della gioventù e a promuovere l’innovazione, lo scambio di esperienze e del know-how tra diverse tipologie di organizzazioni coinvolte nei settori dell’istruzione e della formazione.
In particolare, verranno approfonditi alcuni aspetti della progettazione su Erasmus+, come quelli legati agli elementi di qualità dei progetti, cioè vedremo quali parti dei progetti, che potranno essere presentati alle prossime scadenze, vanno curati con particolare attenzione per poter aspirare a vedere il proprio progetto positivamente valutato e poi finanziato.

La durata del TrainingDay è di circa 5 ore, ed è previsto un attestato di partecipazione.
Per chi avesse interesse a partecipare, ma non avesse ancora molto chiare le informazioni di base su Erasmus+, è consigliabile prendere visione delle parti della guida al programma che trattano priorità e obiettivi del programma, e che descrivono le attività che prenderemo in esame proprio martedì.

Sul portale Eurodesk è possibile registrarsi per partecipare (è previsto un numero massimo di 90 partecipanti).
L’incontro si terrà presso la sala Informagiovani Ancona: invieremo a tutti gli iscritti indicazioni per raggiungerci, nel caso non siate mai venuti prima a trovarci.
Per qualsiasi informazione siamo disponibili ai nostri numeri di telefono e attraverso i nostri canali di contatto.

SCARICA LE SLIDE DEL TRAINING DAY

Erasmus+: panoramica

Erasums+: dati statistici

KA1: mobilità individuale

KA2: partenariati strategici

 

Le foto della giornata

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lavoro caccia al tesoro

Il lavoro è una caccia al tesoro

Realizzare attività di orientamento professionale è un’attività molto simile ad una caccia al tesoro: abbiamo degli indizi, sappiamo cosa cerchiamo ma spesso non sappiamo cosa in realtà troveremo. Da un certo punto di vista questo setting potrebbe anche essere molto divertente; qualche volta invece risulta preoccupante e genera ansia e preoccupazione. La questione però è: c’è un tesoro alla fine del percorso? Rispondere a questa domanda è, secondo me, un po’ il cuore di un’attività di orientamento professionale. Quello che bisogna dire è che la risposta potrebbe non essere scontata come accade in un film o una storia con il lieto fine a tutti i costi (che poi, diciamolo, sono anche le storie meno affascinanti).

Trovare lavoro non è partecipare a una caccia al tesoro che qualcun altro ha architettato, ma costruire autonomamente un proprio percorso alla fine del quale il tesoro ce lo mettiamo noi. Quando nei primi giorni dell’anno abbiamo ospitato i ragazzi di una classe all’ultimo anno delle superiori, siamo partiti proprio con l’intento di individuare e disegnare lo scenario migliore in cui muoversi. Per farlo il modo migliore è quello di provare a confrontarci con noi stessi prima di tutto e chiederci: che cosa vogliamo diventare? Quali sono gli aspetti della nostra vita che maggiormente ci gratificano? Quali competenze ci rendono migliori di quello che siamo? Quando succede che stiamo bene con gli altri? Non sono domande esistenziali, ma gli unici interrogativi che davvero hanno un senso se vogliamo evitare che qualcuno ci trovi un posto nel mondo ma, realmente, quel posto vogliamo sceglierlo.

Questa parola, scegliere, troppo spesso finisce nell’ambito delle cose che solo qualcuno può permettersi, nella sezione delle nostre esperienze proibite oppure tra le cose a cui diamo poco importanza. E invece sarebbe il caso. soprattutto se siete giovani, che questa parola la rivalutaste un pochino. Discutevo l’altro giorno con alcuni “under 30” (li definisco così perché ultimamente la parola “giovani” faccio fatica a capire quando va utilizzata) ed è uscito questo concetto: qui non abbiamo abbastanza opportunità, dobbiamo accontentarci perché non abbiamo alternative e ogni proposta, anche la meno affascinante professionalmente, è meglio di niente. Questa condizione l’abbiamo definita, di “disperazione” (tra virgolette, perché la disperazione vera in realtà è fatta di altre ben più marcate sofferenze). Ecco io dico che le scelte che facciamo per “disperazione” non sono mai le scelte migliori. Sono giustificabili in quel momento, comprensibili per quel contesto ma mai auspicabili.

Accettare un lavoro umile e senza prospettive perché sono “disperato” non è la stessa cosa che farlo perché fa parte della mia strategia per raggiungere un risultato diverso. E non sto parlando di una strategia di carriera professionale, ma più in generale di come vogliamo impostare la nostra vita. Trovo che i tempi che viviamo siano già abbastanza duri ed emotivamente faticosi per evitare che noi per primi ci mettiamo il carico della nostra “disperazione”. C’è un libro che ho consigliato di leggere ai ragazzi con cui ho parlato che si intitola “Il potere è noioso” di Alberto Forchielli (lo trovate qui, leggete la sinossi), l’ho appena iniziato e ci sono due cose che mi piacciono e trovo che possano essere di incoraggiamento. La prima è l’invito a essere ostinati, fino a quasi a cacciarsi nei guai, pur di far sapere al mondo che esistiamo e abbiamo un valore (scrive l’autore “non litigate mai con un sottoposto, ma sempre con chi sta sopra di voi. Altrimenti, dove starebbe il divertimento?“). La seconda è la possibilità di ampliare gli orizzonti, di non guardare solo al qui e ora, al piccolo contesto che ci circonda; uscire e viaggiare (anche fosse solo attraverso internet (“se non avete tempo o soldi per viaggiare fisicamente, fatelo sull’iPad“) può farci scoprire cose incredibili… su noi stessi!

Lavorare all’estero come “au pair”

Lavorare come “au pair” o “alla pari” significa vivere presso una famiglia straniera, aiutando ad accudire i bambini e a sbrigare leggere faccende domestiche in cambio di vitto, alloggio e una piccola retribuzione, variabile da nazione a nazione.

L’au pair  costituisce una categoria specifica che non è né quella di studente né quella di lavoratore. Infatti i programmi alla pari sono considerati progetti di scambio culturale per l’apprendimento e/o il perfezionamento di una lingua straniera.

Sono allo stesso tempo anche un’opportunità di crescita personale.

La ricerca della famiglia viene fatta generalmente tramite un’agenzia con sede in Italia.

Chi, invece, ha una buona padronanza della lingua straniera può rivolgersi direttamente all’agenzia nel Paese di destinazione oppure tramite internet per i paesi in cui esistono siti ad hoc.

Rivolgendosi ad un’agenzia i rischi di incappare in una famiglia “sbagliata” sono minori perché le famiglie ospitanti vengono selezionate e comunque si ha la garanzia di essere ricollocati presso un’altra famiglia nel caso la prima risultasse inadeguata.

La durata del soggiorno varia da 6 a 12 mesi (eventualmente prorogabili per ulteriori 12 mesi) e dipende sia dalla disponibilitá dell’au-pair e della famiglia sia dalle regole in merito del paese ospitante.

Le famiglie richiedono, in genere, un soggiorno minimo di sei mesi, ma anche nove o dodici, con partenza all’inizio dell’anno scolastico o a gennaio.

Anche gli orari di lavoro possono variare in base al paese ospitante. L´Au pair dovrebbe lavorare un massimo di 30 ore a settimana (ad eccezione degli USA, dove l’au pair puó raggiungere un massimo di 45 ore settimanali).

Ogni Au pair ha diritto di norma a 1 – 2 giorni liberi a settimana (in alcuni paesi almeno un giorno libero deve essere la domenica) ed in alcuni casi avranno anche il diritto di avere libero almeno un week-end al mese.

Durante i loro giorni liberi e le loro vacanze, gli Au pair dovrebbero essere invitati dalla famiglia ospitante a partecipare alle loro attivitá. Inoltre durante il periodo di vacanza i ragazzi alla pari sono liberi di rimanere presso la propria famiglia ospitante continuando a ricevere la solita somma di denaro, cosí come vitto e alloggio.

Di norma gli au pair frequentano un corso di lingua nel paese ospitante per migliorare le proprie competenze in materia e conoscere nuove persone.

Per diventare “au pair” occorre avere tra i 17 e 30 anni (anche se nella maggior parte dei paesi, l’età minima è fissata a 18 anni e la massima a 27),  essere celibi o nubili e senza figli,  avere una conoscenza almeno basilare della lingua del paese ospitante e ovviamente avere esperienza nell’accudimento dei bambini.

Il possesso della patente di guida e il fatto di essere non fumatori sono considerati requisiti preferenziali.

La famiglia ospitante, infine, deve essere una famiglia (ma può essere anche una madre o un padre single) disposta ad ospitare un ragazzo straniero rendendolo parte della stessa, avere almeno un figlio minorenne e avere una stanza libera a disposizione dell’au pair. 

Tredici anni, il tempo delle scelte

La terza meda rappresenta un anno cruciale per uno studente, in quanto dovrà non solo sostenere gli esami ma anche iniziare a valutare la scelta della scuola superiore.

Si tratta di una decisione molto importante, perché questo determinerà poi il destino professionale di ciascuno.

Gennaio e febbraio sono in genere i mesi in cui si tengono le iscrizioni e spesso molti studenti arrivano all’ultimo momento senza avere le idee chiare su quale sia la scuola più adatta a loro.

Per questo motivo le scuole si stanno già muovendo con l’orientamento per le classi terze della scuola secondaria di primo grado così che gli studenti riescano ad avere un’idea di cosa studieranno e quali sono gli sbocchi lavorativi di licei, istituti tecnici e istituti professionali.

Nelle scuole superiori infatti sono già iniziati gli open day per orientare la scelta dei genitori (sempre più confusi) sul futuro dei figli (sempre più smarriti). A questi si aggiungono già in molte scuole l’iniziativa studente le “lezioni aperte” ovvero la possibilità, da parte dei futuri “primini”, di assistere a normali lezioni accanto agli studenti più grandi.

Nonostante tutte queste iniziative di orientamento, tuttavia non tutti riescono ad effettuare la scelta giusta e così molti si ritrovano in una scuola che non rispecchia le loro attitudini, li rende svogliati e poco propensi a continuare gli studi.

Per una scelta consapevole, occorre innanzitutto conoscere l’organizzazione del sistema scolastico che dal settembre 2010 prevede: 6 licei, gli istituti tecnici suddivisi in 2 settori con 11 indirizzi e gli istituti professionali suddivisi in 2settori con 6 indirizzi.

I licei  non offrono una specifica preparazione professionale, ma  ampliano l’ orizzonte culturale  e soprattutto  insegnano un metodo di studio , fondamentale per continuare a studiare all’università.  Gli istituti tecnici e professionali permettono di apprendere un mestiere  o  una professione  ed entrare prima nel  mercato del lavoro.

Nella scelta certamente non va trascurato l’aspetto soggettivo, quindi tenere conto degli interessi e delle abilità del/la ragazzo/a in quanto impegnarsi in una cosa per cui si è portati sicuramente renderà più semplice il cammino.

Altri aspetti che possono influenzare la scelta sono la volontà dei genitori e anche le amicizie.

Di certo occorre dare ascolto alla propria famiglia ma senza dimenticare che la scelta finale deve essere del ragazzo.

Allo stesso modo cercare di non farsi influenzare dagli amici o compagni di classe per paura di non trovarne di nuovi.

A conclusione ricordatevi che per il prossimo a.s.  le iscrizioni on line possono essere presentate dal 16 gennaio 2017 al 6 febbraio 2017.

Zona di comfort

La zona di comfort

Per trovare lavoro, per realizzare degli obiettivi, oggi è necessario uscire dalla propria “zona di comfort”. Sono quasi certa che anche tu, caro lettore, avrai sentito dire questa frase almeno una volta nella vita. Anzi negli ultimi anni, da quando finalmente ci siamo modernizzati,  i corsi si chiamano workshop, l’immagine personale si chiama brand e ci sentiamo tutti un po’ più internazionali.

I disoccupati purtroppo si chiamano ancora disoccupati, ma è perché si ostinano a non uscire dalla propria zona di confort.  Quella famosa zona, di cui magari avrai sentito parlare all’ultimo workshop sull’empowerment delle skills personali. No, non era un corso in inglese, come hai pensato per tutta la prima ora, era in italiano. Ma tu  hai perso la metà dei contenuti perché ti ostini a non studiare il vocabolario di oggi, a non modernizzarti. Sei ancora nella tua zona di confort. E quindi scommetto che sei tornato a casa con la decisa intenzione di uscire finalmente da quella stramaledetta e confortevole zona in cui sei rimasto seduto per anni. E hai iniziato ad analizzarla. Quella “zona” del tuo quotidiano, in cui non hai lavoro, vivi ancora con i tuoi, sei nella tua confortevole cameretta di quando avevi 12 anni, litighi ogni giorno con tua madre perché questa casa non è un albergo, mangi vegano perché i tuoi sono più alla moda di te e invece della bistecca cucinano veggy burger.

A una prima analisi non ti sembra esattamente una zona di comfort. E ti senti un po’ preso in giro da quel formatore che parlava tutto strano. In effetti, pensi, sei stato abbastanza eroico per sopportare tutto quel “confort” fino ad oggi. Ma non ti scoraggi, accendi il pc ed inizi a navigare alla ricerca delle piattaforme di formazione, di auto promozione, corsi, informazioni: tutto quello che potrebbe portarti fuori da quella “confortevole” zona morta. Lui, il formatore sapiente e trilingue, non sa che anche dentro la più buia delle zone comfort può nascondersi il più grande dei guerrieri, il più spavaldo degli esploratori. Con un sorriso di sfida pensi che sei pronto ad informarti su tutto l’iperuranio, ad esplorare ogni galassia lavorativa, a studiare anche di notte, a tampinare (stalkerare anzi) ogni possibile datore di lavoro con i mezzi più sofisticati… ce la farai. Ma a fare cosa, esattamente??

Improvvisamente, con la testa piena di informazioni prese dal mare di internet, ti guardi allo specchio, con gli occhi sgranati e l’espressione pesantemente sconfortata. Una vocina dentro di te ti dice che quell’uscita dalla zona comfort è molto più sconfortante del previsto. Quella vocina forse non ha tutti i torti, ma se l’ascolti meglio forse ti dirà anche da dove cominciare. Per esempio dal cercare prima dentro di te quali sono i tuoi desideri profondi. A chiederti chi sei e cosa ti fa stare bene, prima di chiederti cosa sia vendibile oggi. A conoscerti meglio e darti fiducia, per poi iniziare a cercare la tua strada fidandoti anche del tuo istinto. Insomma, in poche parole, quella vocina potrebbe dirti come costruire dentro di te una reale zona di comfort, come farla crescere e renderla ogni giorno più forte, riempirla delle tue passioni, delle tue convinzioni, di ciò che è importante e portarla sempre con te. Quella zona sarà un ottimo alleato, con cui potrai esplorare e sperimentare luoghi e attività nuove senza paura.  E se vorrai potrai comunque darle un nome in inglese, che fa sempre scena. Se la custodirai a dovere sarà una zona in cui far crescere tante skill. O, più “banalmente”, l’amore per te stesso e la tua autostima. Un brand a prova di bomba!

formazione

Scegliere un corso di formazione

Quale corso di formazione posso scegliere? Qual’è il corso più adatto a me?: queste sono alcune delle domande più frequenti che gli operatori di orientamento si sentono rivolgere.

In un mondo del lavoro in continua evoluzione, è naturale che evolvano anche i bisogni delle aziende; vengono richieste sempre nuove competenze e di conseguenza cambiano anche i fabbisogni formativi. Il titolo di studio (diploma o laurea) non è più sufficiente a garantire l’immediato inserimento nel mondo del lavoro ma sempre più spesso deve essere integrato da un percorso formativo in grado di fornire conoscenze più pratiche e specialistiche. Diviene quindi fondamentale scegliere corsi di formazione in grado di fornire tutte le competenze di cui una figura professionale ha bisogno.

L’impresa non è sicuramente semplice dal momento che l’offerta formativa presente sul mercato è vastissima. Tuttavia è possibile seguire alcune indicazioni utili ad una scelta consapevole.

Il primo passo da compiere è cercare di individuare le professioni che il mercato richiede maggiormente senza però prescindere dai propri interessi, dalle proprie inclinazioni, dalle ambizioni personali e dalla passione che farà da filo conduttore a tutta la carriera professionale.

Una volta individuati i propri interessi, è necessario scegliere anche in base alla tipologia di corso, alle caratteristiche dell’ente organizzatore e alla durata del corso stesso.

I corsi di formazione possono, infatti, essere gratuiti o pagamento. Quelli gratuiti possono essere finanziati dal Fondo Sociale Europeo (FSE); quelli a pagamento possono essere autorizzati dalla Provincia. Per ottenere il finanziamento o l’autorizzazione, i corsi vengono sottoposti a valutazione da parte dell’ente Provincia sulla base di criteri di qualità.

Non solo i progetti formativi ma anche gli enti di formazione devono sottostare a criteri di qualità per ottenere il finanziamento o l’autorizzazione del proprio corso. Solo gli enti che rispondono a questi criteri vengono accreditati.

Solo i corsi di formazione organizzati da enti accreditati possono rilasciare qualifiche professionali o diplomi di specializzazione e quindi titoli riconosciuti sul mercato del lavoro.

Sulla scelta di un corso inciderà quindi anche il titolo rilasciato dal corso stesso. In base alla durata del corso, i titoli che si possono ottenere sono: attestato di partecipazione (durata corso: almeno 36 ore), qualifica professionale (durata corso: almeno  400 ore) e diploma di specializzazione (durata corso: almeno 300 ore).

Se state cercando un corso di formazione in ambito regionale, consultate i nostri elenchi alla pagina corsi e concorsi.

Nuovo lavoro? Come superare i primi giorni da neoassunto

Trovare “IL” lavoro è senza dubbio una delle esperienze più impegnative da affrontare. Dovrebbe essere noto che la ricetta per trovare l’impiego dei nostri sogni (più o meno) è una intricata formula alchemica in cui si mescolano in parti non uguali l’adeguatezza delle competenze e delle capacità al ruolo per il quale ci stiamo candidando (in primis), il saper comunicare noi stessi e le nostre aspirazioni nel modo migliore, un modo di presentarsi adatto e anche, ultimo ma discretamente importante, un pizzico di “fattore c”.

Posto quindi di aver messo in campo con successo tutto quello che serve per l’ottenimento del tanto sospirato contratto, arriva il momento di fronteggiare la situazione che più fa tremare i polsi dei neoassunti: quella dei primi giorni nel nuovo luogo di lavoro.
Se credete che con questo si intenda semplicemente la normale eccitazione che ci coglie quando siamo alle prese con delle novità importanti vi sbagliate di grosso: secondo Michael Watkins, ex professore della Harvard Buisness School e uno dei maggiori esperti sulla formazione dei ruoli di leadership nel lavoro, nonché autore di:I primi 90 giorni. Strategie di esordio vincenti per leader a ogni livello, sono i primi tre mesi a determinare il successo o il fallimento della propria carriera in un’azienda ed è quindi all’inizio che bisogna fare in modo di mostrare il meglio di sé, il che non vuol dire imparare tutto lo scibile sul proprio ruolo in questo ristretto periodo di tempo, ma mostrare quella commistione di intenzioni, atteggiamenti e potenzialità che possano confermare di essere la “persona giusta”.

Dello stesso parere è Russell Johnson, managing director dell’EPR Career Management il quale, come riportato in un articolo pieno di buoni consigli del blog Italians in fuga, afferma che: ”[…] una volta raggiunti i primi 90 giorni, o vi siete affermati oppure siete in crisi. E’ molto semplice: i vostri colleghi stanno formando le loro prime impressioni su di voi e queste sono molto difficili da modificare. […]”.

Premettendo che ogni situazione lavorativa è un mondo a sé, ci sono alcuni suggerimenti che sicuramente valgono in linea generale:

Prima di tutto, informarsi!
Ovviamente, diamo per scontato il procedimento di ricerca (sul web, tramite passaparola o recandosi di persona) di informazioni sull’azienda fatto al momento dell’invio della propria candidatura: una volta che si è diventati parte di quella realtà lavorativa, si deve fare un passo in più e studiarne da dentro la mission e lo stile, così da potersi, pian piano, uniformare.
Ma non solo: cercare di conoscere il prima possibile la disposizione degli ambienti fisici (bagni, zone ristoro, ambienti con determinate strumentazioni, uffici dei colleghi coi quali ci si dovrà rapportare maggiormente) contribuirà ad aumentare la propria professionalità e a rendersi indipendenti in meno tempo; in sostanza, a migliorare l’opinione che il restante gruppo di lavoro ha di noi. L’imperativo è quindi tenere ben aperti occhi ed orecchie e dedicarsi, almeno all’inizio, all’ascolto e al sempreverde “imparare con gli occhi” (e se c’è una mappa dei locali di lavoro, ricordarsi di studiarla!).

Non vergognarsi di non sapere.
Al contrario, fingere di avere la risposta a tutto e mostrarsi come qualcuno che non ha nulla da imparare può mostrarsi molto controproducente non solo per la formazione in azienda, ma anche e soprattutto per la costruzione del rapporto con i colleghi.
Bisogna mettere quindi in campo tutta la curiosità, l’interesse e la voglia di apprendere, magari organizzando un elenco di domande da porre durante questo primo periodo; è auspicabile appuntare tutti questi dettagli e informazioni da qualche parte, così da mostrarsi coinvolti e organizzare meglio le proprie mansioni (e magari evitare di chiedere ripetutamente le stesse cose).

Iniziare subito a costruire il rapporto con i colleghi.
Di importanza fondamentale durante questo primo periodo: essere sorridenti e positivi, saper ascoltare, mostrarsi aperti alla collaborazione e al gioco di squadra piuttosto che all’individualismo, evitare per quanto possibile le competizioni, i conflitti o l’immergersi nelle diatribe tra colleghi (che ci saranno sempre!), sono alcune delle buone pratiche da seguire per costruire una buona immagine di sé e per mettere un’ipoteca sulla propria permanenza (oltre che per evitarsi molte situazioni stressanti). Anche saper regalare buonumore è molto importante: meglio non sottovalutare l’importanza dei piccoli gesti, come il volersi fermare per la pausa pranzo assieme ai colleghi, o l’offrire di tanto in tanto un caffè, ma anche l’evitare di sovrapporre le proprie esigenze a quelle dei colleghi presenti da più tempo (un esempio su tutti è quello dei periodi di ferie).
Chiudiamo questo punto con un’informazione: non è affatto raro che i periodi di prova per un nuovo lavoro si concludano in un nulla di fatto a causa della mancata integrazione del neoassunto nel team dei colleghi.

Non dire no!
Non c’è niente di strano nel sentirsi inadeguati alle proprie mansioni durante i primi giorni. Ma non bisogna scoraggiarsi e soprattutto, non bisogna farsi la nomea di qualcuno che rimanda o evita i lavori. Provare ad eseguire tutti i compiti che verranno proposti (nei limiti di quello che vi sembra lecito, ovviamente) e imparare “strada facendo” è sicuramente una strategia vincente. Mostrarsi intraprendenti (senza esagerare), disponibili e allegri lastricherà la vostra strada verso il successo.

Dal canto nostro, non stiamo con le mani in mano riguardo questi argomenti! L’Informagiovani offre tanti servizi legati al mondo del lavoro e se avete bisogno di consigli o consulenze sulla vostra situazione vi basta venire a trovarci durante i nostri orari di apertura. A proposito, con il mese di settembre arriva una carrellata di eventi dedicati ad una ricerca efficace del lavoro: restate sempre aggiornati dalla pagina dedicata!

Vuoi saperne di più sul mondo del lavoro? Ti aspettiamo il 16!

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Per quale professioni siete pronti

Per quale professione siete pronti?

Il mondo delle professioni non è mai stato così poco definito come oggi. Ci sono tanti professionisti che alla domanda “che lavoro fai?” non sanno realmente rispondere o non sanno farlo con un solo nome della loro professione. Il motivo è che attualmente le professioni è più facile descriverle come un insieme di competenze, piuttosto che come una mansione. Fino a qualche tempo fa la cosa non era così, anche contrattualmente: il mansionario, documento utilizzato all’interno delle organizzazioni lavorative, serviva proprio a definire chi faceva cosa e, di controverso, dire che professioni venivamo impiegate.

Le abilità richieste oggi negli ambienti di lavoro, soprattutto quelli meno classici, sono quelle che raccontano i problemi che sappiamo risolvere, gli obiettivi che sappiamo raggiungere e più in generale la nostra adattabilità e preparazione generica a stare in un luogo di lavoro. Questa terza categoria di abilità non è riservata solo ad alcune professioni ma riguarda un po’ tutti. Potremmo dire che sono le capacità che dicono se siamo realmente pronti per essere assunti. Per esempio: siamo in grado di essere puntuali? Sappiamo organizzare un lavoro semplice? Sappiamo gestire uno spazio di lavoro? Sembrano banali, ed alcune di queste lo sono, ma non tutte sono così scontate (se non ci credete provate a chiedere ad un datore di lavoro qualsiasi).

C’è un test da fare on line che si chiama “Skillage: sei pronto ad essere assunto?” con il quale ognuno può verificare se è realmente pronto per lavorare. Noi lo abbiamo fatto ed è stato pure divertente: vi raccontiamo un po’ che ce n’è parso.  Il test verte su 4 aree di competenze che sono “Idoneità a lavoro”, “Produttività”, “Comunicazione”, “Social Media”, “Gestione dei contenuti e sicurezza”. Prima osservazione: una buona aprte delle domande ha a che fare con le tecnologie e con internet in generale: non è più ammissibile che ci sia qualcuno che sta cercando lavoro e che di queste cose, anche poco, non sappia nulla. C’è una domanda che riguarda la fascia di età e, udite udite, da 16 a 24 anni siamo “cazzuti”, ma da 25 in poi siamo già “anziani” (una bella botta di realismo, anche se ironico). Per il resto le domande spaziano su competenze diverse: come utilizziamo i social network, con quali strumenti organizziamo banche dati e archivi, come gestiamo aspetti cruciali come quello della sicurezza e della riservatezze. Noi vi consigliamo di provarlo e verificare, con il report finale, quanto e cosa ancora dovete imparare.

Fermatevi un anno

Sapete che cosa è un “gap year“? Il “gap year” è il modo in cui gli anglosassoni chiamano l’anno in cui decidono di prendersi una pausa. Sì, esatto, un anno di pausa da qualsiasi attività professionale (intendendo con questo anche l’inizio della carriera universitaria). Forse la cosa potrà sembrare strana per la nostra cultura, soprattutto oggi che siamo portati a pensare che ogni minuto passato a non far nulla è tempo sprecato. In alcuni paesi esteri invece il “gap year” è una prassi conosciuta, in certi casi consolidata, qualche volta addirittura consigliata. Quale potrebbe essere il vantaggio di dedicare un anno all’ozio?

Innanzitutto non si tratta di ozio come generalmente viene inteso. Esiste l’ozio creativo, che è quella condizione nella quale lavoriamo (o comunque facciamo qualcosa di produttivo, per noi stessi o gli altri) anche se non ne abbiamo consapevolezza, coscienza e intenzione. Il sociologo che ne ha definito caratteristiche e confini lo ha fatto in un libro che si intitola proprio “L’ozio creativo” (Domenico De Masi, Ediesse 1995). Quindi, una prima questione è che anche quando decidiamo di non fare nulla, in realtà stiamo producendo: ideiamo progetti per il futuro, immaginiamo come potrà svilupparsi la nostra professionalità o la nostra vita, fantastichiamo su dove vorremmo andare o come vorremmo vivere, ci dedichiamo a un hobby, coltiviamo una passione e altre cose del genere. Attenzione: deve essere però una scelta, cioè deve essere intenzionale. Per intenderci, giocherellare e perdersi tra i post di Facebook non è ozio creativo :-).

A ogni modo il “gap year” non è solo ozio, anche se creativo. In realtà è un modo interessante e intelligente per scoprire veramente di che pasta siamo fatti. Per prima cosa il “gap year” è anche e fondamentalmente un anno trascorso a vivere esperienze originali, inconsuete, diverse dalla routine o dalla programmazione che la maggior parte delle persone fa della propria vita. Per prenderci un anno di pausa dobbiamo quindi decidere come utilizzeremo quel tempo e cosa decideremo di fare: dovrà essere un’esperienza che non è dettata dalla funzionalità o da un obiettivo utilitaristico. Molto semplicemente si tratta di scegliere di fare cose ci piacciono e che ci fanno stare bene senza necessariamente che questo ci porti un utile, in qualsiasi senso lo intendiamo.

Se avete modo di ascoltare il racconto di chi ha fatto questa esperienza, vi dirà sicuramente che il “gap year” è stato fondamentale (a questo link http://goo.gl/71WTb5 potete trovare il racconto di una di queste storie; in inglese): l’esperienza può essere il punto di svolta di una vita, aiuta ad aprire gli occhi sul mondo, a respirare aria nuova per fare scelte migliori per il proprio futuro sopratutto per gli studenti. Per esempio, dal racconto di chi lo ha fatto e che potete leggere la link che vi abbiamo segnalato, scopriamo che un anno trascorso a vivere esperienze originali aiuta a comprendere meglio la diversità delle persone e come l’interpretazione del mondo in cui viviamo possa essere molto diversa dalla propria, a migliorare le capacità di adattamento di una persona, a essere maggiormente indipendenti. Se poi un anno di pausa è un anno trascorso all’estero, l’esperienza diventa ancora più interessante perché si aggiungono la conoscenza di una lingua estera, quella di una cultura diversa, la possibilità di avere contatti internazionali. Un anno di pausa può insegnare molte più cose di 10 anni si scuola e formazione.

Il nostro consiglio? Se per esempio siete nell’anno della maturità e state per affrontare la scelta (se non l’avete già fatta) di che cosa fare nella vostra vita, prendete in considerazione il fatto che un “gap year” potrebbe essere per voi la vera svolta.

 

Come prendiamo le nostre decisioni?

Come mai alcune persone decidono di diventare imprenditori e altre no? Perché preferiamo rimandare (decisioni, lavori, impegni) piuttosto che fare quel che occorre? Come reagiscono le persone davanti a una perdita o a un guadagno? Cosa motiva in generale le persone? Come prendiamo le nostre decisioni? A queste domande e ad altre ancora cerca di rispondere una recente disciplina, chiamata neuroeconomia.

Il termine neuroeconomia deriva dall’unione di due discipline che possono sembrare distanti tra loro: la prima indica lo studio del cervello, del sistema nervoso e di come influenza ed è influenzato dall’ambiente che lo circonda. La seconda, invece, studia come due soggetti interagiscono tra loro, attraverso scelte più o meno razionali, utilizzando le risorse che possiedono o sono presenti nel loro ambiente.

L’obiettivo della neuroeconomia è capire come si comporta il cervello durante i processi di decisione. In particolare in quelli di decision making, quando nella scelta sono implicati fgattori economici: dalla semplice spesa in un supermercato, all’acquisto o vendita di un titolo azionario. Modi di agire che in linea di principio sono legati alla sfera economica, ma che effettivamente derivano da comportamenti spcifici del nostro cervello.

Questa disciplina si basa su strumenti, ormai sempre più diffusi, come il PET (Tomografia ad emissione di positroni https://it.wikipedia.org/wiki/Tomografia_a_emissione_di_positroni), la risonanza magnetica e altri strumenti di indagine del nostro cervello che permettono di capire come reagisce agli impulsi esterni.

Per esempio, sono stati realizzati alcuni studi su trader  professionisti e sulle emozioni che si scatenano durante le operazioni di borsa. È stato osservato che nei momenti cruciali delle decisioni si attivano nelle menti degli operatori due dinamiche di pensiero: quella emozionale e quella razionale. Spesso è la prima a predominare sulla seconda. Attraverso questi studi risulta chiaro che l’ansia è maggiore quando le variabili esterne sono impreviste. Prendere decisioni è sempre stata considerata un’attività razionale e consapevole, in cui l’individuo che decide agisce esclusivamente in base alla massimizzazione del proprio interesse. La neuroeconomia attraverso studi e ricerche mette questa convinzione in discussione, fornendo prova che nel momento in cui si prendono delle decisioni hanno molta importanza le esperienze, le emozioni e i processi mentali involontari.

Quante volte siete andati in ansia per una scelta difficile? Quante volte abbiamo pensato di fare la scelta sbagliata? Non preoccupatevi, rilassatevi: la neuroeconomia ci insegna che per quanti sforzi possiamo fare la nostra scelta non sarà mai perfettamente razionale.

(questo articolo è stato scritto da Ilaria Carrasso)

Cosa sono le competenze?

Sono in molti a pensare che i lavori di domani si fonderanno sulle competenze piuttosto che sui titoli. Spieghiamo la differenza, almeno a nostro modo di vedere. I titoli sono “etichette” che possiamo metterci ed esibire quando qualcuno ce le consegna. Così diventiamo ingegneri, per esempio, solo quando, dopo un percorso universitario, otteniamo il titolo di studio della laurea in ingegneria; oppure siamo giornalisti solo quando un ordine, previo apposito iter ed esame, dichiara che possiamo firmare articoli di giornali e riviste. Niente di male, per carità. Solo che questo meccanismo oltre ad avere indubbi vantaggi (pensate ad esempio alla professione del medico, per la quale il titolo garantisce uno standard di qualità e sicurezza per tutti) ha anche qualche pecca. Per esempio non contempla professioni emergenti che, non rientrando dentro nessuna categoria già preordinata, sfuggono anche a titoli di qualsiasi genere (quando potete dire di essere social media manager?).

Ma il difetto, se così lo vogliamo chiamare, più grande è la logica che sottende a questo tipo di impostazione. Avere un titolo ci fa pensare (a volte pretendere) che sia nostro diritto avere anche un lavoro, una mansione retribuita per quel tipo di titolo. Non che la pretesa sia assurda, ma cosa succede se dato un tot di laureati in giurisprudenza non ci sono posizioni sufficienti per tutti? La risposta nella realtà la conoscete tutti. Questo meccanismo non è sbagliato in senso assoluto, solo che non corrisponde più e non è più adattabile all’attuale mercato del lavoro.  Proviamo avedere se, diversamente, può accadere qualcosa di diverso partendo dalle competenze.

Innanzitutto: cosa sono le competenze? Etimologicamente competenza deriva dal tardo latino competentia, sostantivo di competere (cum, insieme, più petere, dirigersi verso, cercare di avere, aspirare). Competere significa dunque: –Incontrarsi, convergere al medesimo punto –Concordare –Spettare, essere applicabile –Essere padrone di se stesso, cercare insieme (allo stesso tempo) di ottenere qualcosa –Essere adatto, capace di (in senso figurato). Riprendendo una definizione più vicina ai temi del lavoro, proposta da ISFOL, la competenza professionale è un insieme di elementi/dimensioni che concorrono all’efficacia di un comportamento professionale; è finalizzata all’azione ed è intrecciata alla capacità di fare e alla conoscenza delle situazioni e dei contesti. insomma dentro la competenza c’è tutta la nostra professionalità; e l’insieme delle nostre competenze fa di noi professionisti di un determinato campo. Avere delle competenze, quando cerchiamo lavoro, dovrebbe farci fare questa domanda: a chi possono essere utili? L’ottica, rispetto a quella del “posto di lavoro” per titoli, è nettamente diversa anche se il risultato atteso è identico.

Se cominciamo a porci nel mercato del lavoro come professionisti in grado di offrire delle competenze la strategia che dovremmo seguire non è tanto quella di trovare un posto, quanto quella di capire quale bisogno o quale utilità possiamo offrire a chi ci potrebbe pagare per avere i nostri servizi. Il meccanismo che regola questa strategia è lo stesso che seguono aziende ed imprenditori quando decidono di posizionarsi in un mercato. C’è un libro che racconta meglio e in maniera più esaustiva tutto questo: è “Business model you” di Tim Clark, tradotto anche in italiano dalla casa editrice Hoepli. Ah, se volete potete consultarlo gratuitamente anche all’Informagiovani!

Concentrazione minima

“Attenzione!” è questo l’incitamento che con maggiore frequenza e facilità troviamo in contesti diversi della nostra vita: per strada, a scuola, in casa. “Attenzione” è un ammonimento, ma anche un avvertimento, che richiama all’ordine prima il nostro sguardo e poi la nostra mente. La nostra mente ha, infatti, una forte inclinazione a disimpegnarsi, a divagare (e la frequenza con cui questo richiamo viene fatto ne è la dimostrazione). A chi non è capitato di distrarsi? O, meglio, chi non è mai distratto? La disattenzione, a parte i film di spie e 007, è un fattore intrinseco dell’essere umano: tutti noi ci distraiamo (e peggio sarebbe se non fosse così).

La mente umana, spesso e volentieri, vaga senza una meta apparente: non significa che sia inattiva, semplicemente non è focalizzata su di un obiettivo (e quel “attenzione!” magari gridato serve proprio a ricondurci all’obiettivo). Quando ci capita di distrarci, però, non è che il nostro cervello se ne stia lì ad oziare: nel concedersi spazi di svago, nel distaccarsi dalla contingenza la mente esercita anche altre facoltà, con esisti vantaggiosi per noi stessi e gli altri. E allora: a che cosa pensiamo quando non pensiamo a nulla? In un libro intitolato “The wandering mind” (sottotitolo tradotto: che cosa fa la mente quando non guardi”) si cerca danno più risposte a questa domanda. Quello che il nostro cervello fa durante lo “svago” è una ricombinazione di stimoli che durante la fase di attenzione ha ricevuto. La nostra memoria è composta infatti da tre sostanziali livelli. Il primo è quello delle competenze (skills) come per esempio parlare, camminare, scrivere, ecc. Il secondo livello è quello delle conoscenze (knowledge): si tratta dell’insieme delle nozioni che abbiamo ricevuto, in tutti i contesti in cui le abbiamo assimilate (non solo, quindi, la didattica formale). E infine quella che viene definita più comunemente come memoria, cioè la capacità di ricordare, riattivare esperienze del passato. Su questo ultimo livello la nostra mente, stranamente, propende più a guardare la futuro che non al passato, tanto è vero che le zone cerebrali che si attivano ricordando eventi del passato, sono le stesse che si attivano quando pensiamo al futuro.

Se paragoniamo il nostro cervello ad una città, nelle fasi di ozio non è che le strade siano deserte, ma gli abitanti attendono a casa propria salvo confluire in un medesimo posto quando accade un evento importante. Quindi quando divaghiamo, in realtà viaggiamo: oltre che tornare al passato, facciamo anche dei viaggi futuristici immaginandoci possibili scenari futuri. E poi facciamo anche un’altra cosa incredibile: secondo la “teoria della mente” abbiamo l’attitudine a rappresentarci gli stati mentali altrui. In altre parole ci facciamo delle domande e cerchiamo delle risposte su quello che potrebbero pensare gli altri. A volte facciamo anche il salto del cosiddetto “mettersi nei panni degli altri”: sviluppare la disposizione a mettersi nei panni altrui aumenta ala possibilità di comprensione reciproca, di empatia e interesse sociale, con evidenti vantaggi per la sopravvivenza del gruppo.

Questo vagabondare della nostra mente è anche alla base della creatività: si passa dalla fantasticheria privata a un esercizio sociale dell’immaginazione; è il piacere di girovagare nella mente altrui che ci induce a creare personaggi d’invenzione, apposta per questo scopo; ed è il piacere di spostarsi nel tempo che ci porta a inventare trame e storie. Anche l’attività di narrare è una forma di adattamento: i nostri remoti progenitori sono letteralmente diventati umani narrando, usando cioè il linguaggio per riferire, condividere, tesaurizzare esperienze ritenute rilevanti.

D’ora in poi quando qualcuno ci coglierà nel pieno della nostra distrazione potremo rispondere a quel monito (attenzione!) dicendo tranquillamente che stavamo viaggiando per raccontare storie e che quello che riusciremo a produrre grazie a questo metodo sarò molto più proficuo di quanto verrebbe fuori se rimanessimo instancabilmente focalizzati su di un solo obiettivo. Con buoan pace di chi ci vorrebbe soltanto come task manager, siamo in realtà dei poeti sognatori. 🙂

 

 

 

Come (rischiare di) perdere il lavoro

Solitamente consigliamo le cose che si DEVONO fare per trovare un lavoro. Ma forse possono essere utili anche quelle che si devono EVITARE per non rischiare di perdere quella che potrebbe essere un’opportunità lavorativa. Perché se è vero che un buon curriculum può aiutare a fare una bella impressione, è altrettanto dimostrato che mostrarsi trasandati fa ottenere l’effetto contrario. Leggendo un articolo tratto dalla rivista Business Insider abbiamo trovato alcuni comportamenti, atteggiamenti e stili che potrebbero essere a rischio “perdita di lavoro”: eccoli qua.

Poca attenzione: ci sono candidati che durante il colloquio prendono nota delle cose che vengono dette oppure fanno domande sull’azienda e sul ruolo; poi ci sono quelli che invece, con sguardo fisso, ascoltano senza alcun feedback quello che viene detto loro. Ecco, questi secondi stanno perdendo punti preziosi.

Esibizionismo: c’è chi cerca di attirare attenzione su di sè o sul proprio cv con effetti speciali, colori sgargianti, decorazioni floreali, un linguaggio esageratamente pittoresco. Cercano in tutti i modi di attirare l’attenzione: probabilmente ottengono il risultato sperato, ma l’attenzione è di un altro tipo (quella che abbiamo per un pagliaccio, non per un professionista).

Bere e fumare: non è affatto una buona idea bere qualcosa di alcolico prima di un colloquio perché se è vero che questo potrebbe calmare i nervi, si rischia invece di sembrare un po’ annebbiati oppure non troppo intelligenti; il fumo invece ci lascia addosso un odore inequivocabile ed anche se questo di per sé potrebbe non essere un problema, accade però che i selezionatori danno molta importanza alle nostre abitudini di vita che possono incidere sul luogo di lavoro.

Poca cura personale: quella della igiene personale non è una questione da sottovalutare; non sono per fortuna molti quelli a trascurarla, ma bisogna fare attenzione anche alla cura dei particolari, cercando di provvedere alla pulizia delle mani per esempio, oppure a qualche rimedio per una eventuale eccessiva sudorazione.

Mandare messaggi: speriamo che nessuno di voi abbia in mente di mettersi a scrivere un messaggio durante un colloquio; lo sconsigliamo anche nel caso lo facciate in quei momenti in cui siete in attesa (magari perché, giustamente, siete arrivati un po’ prima dell’orario prefissato). Questo perché, al posto del messaggio, nelle sale di attesa delle aziende potreste raccogliere utili spunti da utilizzare nel colloquio (che dite, leggendo una brochure aziendale per esempio?).

Portarsi dietro un sacco di roba: presentarsi ad un colloquio con troppe cose in mano o al seguito (agenda, telefono, bottiglietta d’acqua, scartoffie varie) non è un buon contributo per generare una buona impressione; il vostro curriculum, una penna con un foglio per gli appunti sono più che sufficienti (sì, il telefono lo potete lasciare da parte).

Esagerare: chiaramente l’obiettivo di ogni buon candidato è quello di stupire, impressionare il selezionatore che ha davanti (costi quel che costi). E quindi via a raccontare tutto ciò che si è fatto e che ci è accaduto senza accorgersi, a volte, di straripare in uno sproloquio che rischia di fare davvero una cattiva impressione. Per evitarlo alcuni piccoli accorgimenti: dire le cose rilevanti, tenere fuori dalla discussione la vita privata, ascoltare (e fare delle domande). La declinazione peggiore del candidato strabordante è quello che interrompe mentre parlano gli altri: dimostra mancanza di rispetto e anche poca attenzione (da evitare assolutamente).

Non far parlare il corpo: le parole sono importanti, ma lo è anche il linguaggio del nostro corpo; per esempio se scegliamo di non sorridere, di non guardare l’interlocutore in faccia e di avere una cattiva postura (quasi sdraiati sulla sedia, la testa appoggiata alle mani o ancor peggio sul tavolo per fare un paio di esempi) stiamo contribuendo a gran parte del nostro insuccesso con comportamenti a volte involontari.

Ci potrebbero essere anche altre cose da dire (e ce ne sono se avete voglia di leggere per intero l’articolo su Business Insider, in inglese). Noi ci auguriamo che anche solo questi descritti possano aiutarvi a fare la migliore prima impressione che potete. E in bocca al lupo per il vostro futuro lavoro!