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Farsi assumere da un algoritmo

“Non mi ha scelto perché gli stavo antipatico”. Questa frase, a volte un po’ assolutoria, viene da dirla quasi spontaneamente ogni volta che non superiamo un test di selezione, un esame o una qualunque prova nella quale dobbiamo confrontarci con qualcuno che deve giudicarci. Il rapporto personale, approfondito o superficiale, è un fattore spesso determinante per valutare e poi eventualmente scegliere una persona, Dalla prima impressione fino ad arrivare ad una relazione che dura da tempo, sono molte le sfaccettature con le quali le nostre emozioni interpretano i rapporti con gli altri. Il fenomeno è anche alla base della costruzione dei network, anche quelli che si fondano su relazioni digitali (social media in testa). Ma quanto possono e devono influire queste variabili nella scelta di un collaboratore, di un professionista?

Uno studio americano mette in dubbio, con un metodo scientifico, l’efficacia delle relazioni personali per individuare le figure professionali più adatte nei percorsi di selezione. In un articolo apparso su Internazionale di questa settimana infatti, si spiega come si è arrivati a questa ipotesi. In un percorso di selezione per profili medio/bassi sono stati utilizzati due modalità di scelta diverse: la prima basata sulla somministrazione di test analitici (fondati su un algoritmo di decifrazione), la seconda sulle osservazioni di un gruppo di selezionatori. Il risultato è stato che i candidati assunti tramite test hanno mantenuto il posto più a lungo di quelli assunti tramite un processo di selezione “umana”.

Questo vorrebbe forse dire che affidarsi ad un sistema di selezione totalmente scientifico è la soluzione migliore? E che quindi in futuro dovremmo imparare a farci assumere attraverso un algoritmo) In realtà non è proprio così. La selezione fatta secondo parametri scientifici porta in sostanza a definire gruppi di lavoratori uniformi, con lo stesso livello di competenze, la medesima gamma di interessi e via dicendo. Una omogeneità che, in realtà, non fa bene alle aziende che, per mantenere un posto nel mercato hanno capito che la soluzione è puntare sulla diversificazione, anche interna.

In definitiva le relazioni personali ci aiutano a definire (o a mettere insieme) un sistema complesso in grado di soddisfare esigenze diverse, a volte contrapposte. Non solo: il fattore emotivo è anche il valore aggiunto che entra in gioco in caso di imprevisti escogitando soluzioni originali. Un computer (un test, un algoritmo) sono in grado di individuare il migliore secondo un criterio scientifico e oggettivo: solo che non sempre è la soluzione migliore.

Quello che i social media non dicono

I social network servono a trovare lavoro? Se sì, quali piattaforme? E con quali risultati? Immaginiamo che le risposte a queste tre domande possano essere diverse in base alle esperienze avute nei primi contatti con il mondo del lavoro o con quello dei social network. Proviamo a rispondere anche noi. Si può trovare lavoro con un social media? La risposta è senz’altro affermativa. Ma, chiaramente, non è uno strumento diretto di assunzione. Avere un profilo su un social network significa esporsi, presentarsi, rendere pubblica una parte della nostra vita. Questo vale anche se settiamo in maniera restrittiva e vincolata i parametri della privacy. Il motivo è semplice: supponiamo che abbiate deciso di utilizzare Facebook solo per i vostri amici e al contempo siete in una fase della vostra vita in cui state cercando lavoro; come fate ad essere sicuri che nessuno dei vostri contatti intimi e stretti non possa essere il punto di collegamento con una opportunità di lavoro? Non potete esserlo ed è per questo che il solo fatto di iscriversi ad un social network è già un primo, piccolo, passo della vostra presentazione professionale.

Quali piattaforme di social networking sono adatte per la ricerca? Al momento, in Italia, c’è una piattaforma che più di altre è dedicata ai contatti professionali, Linkedin. Ma questo non vuol dire che possiamo e dobbiamo utilizzare solo quella quando siamo alla ricerca di opportunità professionali. Come detto poco sopra anche un social network generalista come Facebook può essere una importante vetrina per le nostre competenze. Quello che dobbiamo fare è imparare a considerare la nostra presenza on line anche in termini di visibilità, promozione di noi stessi, reputazione, affidabilità e considerazione da parte di un pubblico selezionato. Per questo motivo i social non possono, a nostro modo di vedere, soltanto essere un posto per il “cazzeggio”. Perlomeno abbiamo visto che utilizzarli anche per comunicare temi professionali può essere importante così come trascurare questo aspetto può essere dannoso e controproducente.

Questo significa (terza domanda) che i risultati possono essere buoni ma anche irrimediabilmente cattivi? In un articolo di Wired comparso qualche tempo fa veniva riportata l’ultima ricerca di Adecco insieme all’università Cattolica di Milano battezzata Work trends study. La sostanza? Il 35% dei recruiter (selezioantori) intervistati per il mercato italiano, circa 143, ha ammesso “di aver escluso potenziali candidati dalla selezione in seguito alla pubblicazione di contenuti o foto improprie sui profili social”. Capito? Nell’articolo, per essere chiari, si ribadisce anche che  “la web reputationnon è un giochino per fissati del web né un campo riservato ai brand o a una manciata di personaggi popolari: è l’altro lato della nostra presenza pubblica. Che potrebbe anche riservarci sgraditissime sorprese. Anzi, neanche quelle visto che non sapremo mai perché quella e-mail o quella telefonata non sono  arrivate“.

Per concludere, il nostro consiglio è abbastanza semplice. Attivate un profilo su di un social network, studiatene funzionalità e impostazioni nella maniera più precisa possibile, datevi una strategia per il suo utilizzo e, ogni volta che pubblicate qualcosa pensate: chi potrebbe leggere quello che sto scrivendo e come potrebbe interpretarlo?

Non finire nel cestino!

Diamo spesso consigli su come redigere il proprio curriculum vitae e qualche volta assistiamo le persone nella sua stesura. Per quante volte lo possiamo aver detto, ci accorgiamo però che c’è sempre qualcuno che ha ancora bisogno di qualche suggerimento. Così come ci sono delle domande sulla sua compilazione che sono intramontabili (degli evergreen): la foto ci va? Metto anche le esperienze di lavoro nero? Devo mettere il voto? Anche se è basso? In altre parole c’è sempre chi è alla prima volta davanti al foglio bianco su cui scrivere le proprie competenze (cercando di scriverle nel modo più attraente possibile).

Le parole d’ordine per quello che riguarda il cv sono due: attenzione ai dettagli e scrivere cose interessanti. L’attenzione ai dettagli è fondamentale perché basta poco per finire nel cestino: chi legge il vostro cv, che voi avete avuto in gestazione per tanto tempo con tanti tormenti, gli dedica al massimo un minuto, 30 secondi in una buona maggioranza dei casi. Significa che anche un piccolo errore di ortografia rischia di essere preponderante su tutto il resto se in quel breve lasso di tempo dedicato alla lettura è la cosa che salta agli occhi. Un apostrofo di troppo, un congiuntivo scambiato per un condizionale e la vostra candidatura fa una brutta fine. Direte voi: ma non sono errori sostanziali (soprattutto se non mi candido come prof di italiano). Beh, però ascoltate bene: non siete voi a decidere e, soprattutto, una valutazione del candidato non è mai fatta solo sulle sue competenze tecniche.

A proposito: i migliori cv sono quelli da cui è possibile avere un’idea della personalità della persona che lo ha scritto. Per questo motivo è necessario raccontare anche le proprie esperienze diverse dalle singole mansioni lavorative; parlare di un hobby o di una passione a cui si dedicano tempo ed energie aiuta a far capire di che pasta siete fatti. Non basta dichiarare di essere “buoni comunicatori” o “affidabili organizzatori” se poi queste affermazioni non sono supportate da contesti e momenti in cui le avete messe alla prova. Documentare un cv significa raccontare ciò che abbiamo fatto e realizzato più che quello che siamo.

Da ultimo in questo post una nota sul modello di CV da utilizzare. Scordatevi, per favore, il curriculum vitae europeo: lo possiamo vedere come un indice delle cose da inserire in un cv, ma non di più. Il cv europeo è più che altro il parto di un apparato burocratico e amministrativo fatto nel tentativo di unificare e uniformare i lavoratori di tutta Europa. Peccato che nel mercato del lavoro il principio sarebbe quello di differenziarsi per farsi riconoscere. E se non credete a noi sentite qua: “ho sempre ritenuto che il CV europeo sia l’antitesi di quello efficace perché non è chiaro, è troppo lungo e ripetitivo. È una gabbia poco flessibile che costringe tutti i candidati a parlare di sé allo stesso modo. E tutti alla fine sembrano usciti dallo stesso stampo. Il curriculum europeo ha il ruolo opposto a quello che dovrebbe svolgere un CV, cioè facilitare la comprensione a prima vista delle competenze di un candidato da parte di una persona che va di fretta e che ha altri centinaia di curricula da leggere.” Parola di Michèle Favorite, esperta alla John Cabot University.

A proposito: la John Cabot University sarà nostra ospite il prossimo 4 dicembre, prendete nota (e prossimamente nella nostra pagina eventi tutti i dettagli)

Il tuo lavoro è sicuro?

Già in altre occasioni abbiamo parlato di come e quanto le tecnologie possono aver modificato la nostra vita lavorativa. Non si tratta solo di avere oggi la possibilità di utilizzare il computer per scrivere e trattare documenti che ci riguardano in maniera più snella e veloce.  L’avvento dell’ICT (information and communication technology) nella nostra vita quotidiana ha cambiato radicalmente e per sempre non solo le nostre abitudini ma anche il nostro modo di pensare. Molto probabilmente, per esempio, molti di noi farebbero fatica a immaginare di vivere senza internet (alcuni, forse, farebbero fatica anche a rimanere senza per un giorno). Non si tratta di un vizio o di una pessima abitudine ma semplicemente di un mondo che è cambiato anche epr cose molto operative e utili: comprare un viaggio, fare un’operazione bancaria, trasmettere un documento di lavoro, informarsi per fare qualche esempio generico.

In alcuni casi, come nel settore del lavoro, internet e l’automazione offerta dai computer ha creato qualche paura. La domanda o, meglio, l’istanza più frequente in tal senso è: l’informatica di ruba o ci toglie il lavoro? Vengono alla mente le catene di montaggio (l’industria automobilistica Tesla non ha operai in catena) oppure le spedizioni delle lettere (mail e posta certificata stanno “mangiando” terreno ai portalettere). E il vostro lavoro, attuale o prossimo,  è sicuro? Oppure siete tra le figure che verranno messe a repentaglio dalle tecnologie?

La domanda corretta però è un’altra: quanto utilizziamo le tecnologie e quanto ne siamo utilizzati? Perché la paura, come sempre accade, è spesso figlia dell’ignoranza e della disinformazione. Così, anche su questo versante, conoscere aiuta a prevenire. Si può partire anche da piccole cose che sono già un segnale di quanto e come siamo nel giusto mood con la tecnologia. Per esempio, tra di voi chi sta cercando lavoro e utilizza i social network per promuovere le proprie competenze? Chi ha un profilo Linkedin aggiornato’ Chi invece non sa nemmeno che cosa sia Linkedin? Quanto conoscete le opportunità offerte dalle nuove tecnologie? Se impariamo ad utilizzare questi semplici strumenti significa che stiamo già facendo un passo nella direzione della scoperta anziché in quella chiusura al cambiamento.

Se volete una risposta alla domanda del titolo “il tuo lavoro è sicuro?” potete anche fare la prova utilizzando questo simpatico strumento messo a disposizione dalla BBC (riferito al mercato inglese). Chiaramente è solo un test anche se corredato da dati e statistiche. Se invece volete curarvi della prevenzione della vostra carriera professionale proviamo a darvi un consiglio: a essere messi in discussione saranno i lavori ripetitivi per i quali il contributo umano è scarso o nullo. Basta quindi dedicarsi a una professione per la quale non è richiesta solo routine e automatismi ma anche un po’ di creatività, intelligenza, spirito di iniziativa. Tutte cose che si possono imparare, studiando 🙂

Più vacanze per tutti!

Untitled3-e1377294231119.pngConsiderato il tempo e la data oggi parliamo di vacanze. Ora qualcuno si immaginerà, giustamente, che tratteremo di mete in paesi esotici, di arrampicate sui monti o di bagni in mezzo a piscine naturali piene di pesci. Ma su questi temi non siamo molto ferrati e, al massimo, potremmo riportare soltanto qualche piccola esperienza personale di poco conto. Invece scriviamo di vacanze perché la notizia è che le vacanze ci rendono più produttivi e ci aiutano anche a essere più efficaci nelle nostre mansioni professionali.

La cosa nasce da un’indagine fatta da due studiosi americani che hanno analizzato un campione di manager super impegnati ai quali è stato chiesto come preferissero lavorare: se con più tempo e calma o con meno tempo e più fretta. I risultati presentavano una variazione rispetto alla provenienza geografica dovuta al fatto che lo stile di lavoro risulta influenzato anche dalle abitudini e dalle consuetudini locali. Per esempio, i più vacanzieri sono gli svedesi e i brasiliani, con 41 giorni di ferie pagate, mentre negli Stati Uniti non c’è alcuna legge che regola il pagamento di giorni di vacanze e secondo le stime la media delle aziende americane è di 10 giorni di ferie pagate—e solo il 25% degli americani se li prende tutti. A ogni modo, il dato rilevante emerso è stato che i manager con più vacanze tendevano a essere più inclini a lavorare di fretta, a essere più concentrati e più impazienti. I dati raccolti hanno permesso di concludere che avere più vacanze aiuti i lavoratori a capire meglio l’importanza di essere efficienti e a dare il massimo quando se ne ha la possibilità.

Sembrerebbe quindi che prendersi un po’ di vacanze aiuti davvero a essere più produttivi: ma da cosa dipende questo aumento di produttività? Secondo lo studio che abbiamo brevemente illustrato sopra (e che potete leggere qui) si tratterebbe semplicemente di un fattore legato alla gestione del tempo: siccome so che ho meno tempo per fare lo stesso numero di cose, mi adopero per fare in maniera più efficiente. Prendersi una pausa non rinfrescherà il cervello permettendoci di lavorare di più, ma spendere meno tempo alla scrivania ci obbligherà a sprecare meno tempo.. Secondo la nostra modesta opinione ci sono anche altre ragioni per le quali il nostro lavoro può migliorare grazie alle vacanze.

In primo luogo c’è un fattore legato allo stress, il più evidente: il nostro cervello e il nostro corpo hanno bisogno anche di sperimentare contesti diversi da quello lavorativo, anche quando lavoriamo in un posto idilliaco. Chi di voi non si è trovato almeno una volta a tirare un sospiro di sollievo una volta varcata la soglia di uscita dal luogo di lavoro? Un altro fattore è rappresentato dalle opportunità di crescita che possiamo sfruttare all’esterno del nostro luogo di lavoro: per esempio non è detto che la vacanza si possa intendere solo come “svacco” e nullafacenza: per la maggior parte di noi fare vacanza significa anche dedicarsi in maniera più assidua a interessi e passioni, coltivare e sviluppare una competenza magari in maniera allegra e spensierata (molti sport per esempio aiutano a sviluppare doti che poi possono essere adoperate nel lavoro, come il coraggio e al determinazione). Infine un ultimo aspetto riguarda la possibilità che abbiamo di contaminarci con altre idee, culture, valori. Accade se adoperiamo le vacanze per viaggiare e visitare posti in cui non siamo mai stati soprattutto se lo facciamo all’estero, dove abbiamo possibilità di incontrare e conoscere situazioni e condizioni diverse dalle nostre. Questo tipo di vacanza sarebbe bello se potesse diventare in qualche modo un’abitudine di lavoro. Sembra quasi un controsenso ma in realtà esistono già realtà aziendali che includono, nei viaggi di lavoro, un tempo libero per i propri dipendenti: non si tratta (solo) di un premio legato alla disponibilità alla trasferta, ma di un’opportunità di crescita che si offre ai propri collaboratori e che si può poi sfruttare nel contesto lavorativo (funziona in maniera quasi diretta per chi svolge mansioni creative).

Noi ci crediamo talmente tanto in questa cosa delle vacanze che abbiamo già cominciato 🙂 Come forse i più attenti lettori avranno notato gli articoli di questo blog hanno subito una variazione nella frequenza: non più 3 appuntamenti (uscite) alla settimana ma una soltanto. Il tempo guadagnato lo utilizziamo per fare vacanze il più possibile produttive. Se volete provate anche voi e diteci come va: buona produttività!

Imparare ad imparare

Boy reading book

Boy reading book

Che siate ancora studenti oppure già immersi nel mondo del lavoro, ci sembra evidente che il detto “nella vita non si finisce mai di imparare” sia quantomai attuale. Oggi non si può smettere di imparare cose nuove, nella vita e nella professione. Per due motivi fondamentali. Il primo è che l’evoluzione che stiamo vivendo in questa epoca ci presenta ogni giorno una novità: nel tempo abbiamo imparato a organizzare viaggi da soli con internet, a comunicare senza telefonare con un telefono (paradossale), a monitorare digitalmente quello che facciamo durante la giornata. Il secondo motivo per non smettere mai di imparare è che il mondo in cui viviamo, che lo vogliamo o meno, è davvero molto competitivo. Significa che se non siamo aggiornati, sempre, rischiamo di rimanere esclusi dalle opportunità che si presentano.

La notizia buona è che esiste un metodo per riuscire ad imparare: alcuni scienziati americani hanno scoperto 10 segreti per imparare. Alcuni faranno particolarmente piacere agli studenti, altri un po’ meno. Vediamo quali sono. Il primo è esistono i tempi giusti per imparare: non tutti i momenti della giornata sono uguali per il nostro sistema cognitivo. Per esempio le persone più adulte (se non addirittura anziane) riescono ad apprendere meglio la mattina; così come gli studi hanno evidenziato che è meglio studiare le lingue il pomeriggio e che andare a dormire subito dopo aver studiato qualcosa aiuta a consolidare l’apprendimento. Studiate e interrogatevi: il nostro cervello quando viene messo alla prova restituisce il meglio di sè (ragazzi, è per questo che a scuola ci sono le interrogazioni!). La cosa funziona anche se ci interroghiamo da soli: per cui una buona tecnica è quella di leggere qualcosa e poi chiedersi che cosa abbiamo letto, sforzandoci di ricordare temi, collegamenti, idee appena apprese. Distrarsi non è un peccato, a patto che la distrazione non coinvolga le stese funzioni cognitive che state utilizzando per imparare. Per esempio gli odori associati ad una lettura renderanno quella lettura indimenticabile ogni qualvolta percepirete lo stesso odore. Chiaramente la cosa non funziona altrettanto bene, anzi è deleteria, se a distrarvi sono WhatsApp, sms o post su Facebook. Esiste anche l’apprendimento passivo: possiamo imparare qualcosa anche mentre stiamo facendo dell’altro; se guardiamo un film in lingua riusciamo a seguire la trama e i suoi protagonisti ma al contempo a immagazzinare vocaboli che non conosciamo (e che ci rimarranno in mente!). Il team facilita l’apprendimento, soprattutto in una fase successiva allo studio da soli. Il gruppo di studio, per essere efficace, deve svolgere due attività: discussione e risoluzione dei problemi.

Bella notizia per i più giovani: i videogiochi sono un toccasana per l’apprendimento! Pare infatti che l’abilità che si sviluppa nella pratica di un videogioco, soprattutto se di azione, accelera la capacità del cervello di formare precisi modelli di coordinazione occhio-mano che aiutano l’efficienza generale della nostra mente nell’apprendere. Spesso ne sentiamo il bisogno, ma a questo punto possiamo dire che un periodo di relax è un dovere se vogliamo che le cose che impariamo possano sedimentarsi nella nostra memoria. Una pausa dedicata al rilassamento può consistere in un pisolino oppure in una partita dello sport che preferiamo: l’importante è che il corpo, oltre la mente, abbia la possibilità di rigenerarsi in qualche modo. Vi siete mai chiesti perché state imparando qualcosa? Bene, da oggi la risposta, vera o falsa che sia, può essere questa: “devo insegnare”. Fingere di essere degli insegnanti che devono riproporre i concetti che hanno studiato è un utile esercizio che migliora le nostre capacità cognitive (badate bene che se andate ancora a scuola la finzione deve necessariamente finire all’ingresso 😉 ). Scegliete bene i tempi: se oggi studio qualcosa non è detto che ripeterlo o ripassarlo immediatamente. Il nostro cervello è programmato per ricordare le cose in tempi che non sono casuali: c’è un nesso temporale preciso tra il momento in cui impariamo qualcosa e quello in cui dovremo utilizzarlo. Se per esempio volete ricordare qualcosa tra un anno, dovete ripassarlo un mese dopo averlo imparato e poi una volta al mese fino alla fine dell’anno. La nostra memoria e la nostra capacità di apprendere si comportano essenzialmente come dei muscoli: più li esercitiamo e più saranno reattivi nella risposta. Per questo è importante non abbandonare lo studio anche quando scarseggiano i risultati: in questo senso sapersi perdonare un fallimento (un corso non andato bene, un brutto voto ad una interrogazione, un esame saltato)a patto che non sia un’abitudine, ci libera da pensieri negativi e rafforza la nostre prestazioni future.

Ora che sapete come fare non vi rimane che imparare! 😉

 

 

Non c'è più niente da inventare

non ce niente da invenatreLa creatività, come abbiamo scritto più volte anche in questo blog, può essere una grande alleata in tempi di crisi occupazionale: inventarsi un lavoro, come si usa dire, a volte è l’unica strada veramente percorribile per chi cerca un’occupazione. Ma possiamo davvero inventarci un lavoro dal nulla? Veramente il nostro ingegno può essere ancora capace di trovare qualcosa che non esiste? Esiste ancora la possibilità di far nascere dal nulla qualcosa che prima non esisteva? Rispondere affermativamente a queste domande può essere al tempo stesso un bene o un male. Per rispondere potrebbe forse essere utile capire che cosa accade nel mondo delle invenzioni, quelle vere.

In un articolo apparso su The Economist e ripreso dalla rivista Internazionale di questa settimana, c’è una analisi sommaria ma abbastanza precisa di quel che accade nel mondo dei brevetti. La rivista ha preso in considerazione l’evoluzione quantitativa e qualitativa dei brevetti, le invenzioni registrate per dirla con altre parole. Quello che si può notare è che le vere invenzioni si fermano in realtà a quai due secoli fa. Anche se i brevetti registrati nel tempo hanno mantenuto una crescita costante o sono aumentati, quelli basati su scoperte del tutto nuove sono in realtà diminuiti o quasi scomparsi. facciamo un paio di esempi (un po’ vecchi). La lampadina: chiaramente si tratta di una invenzione ma in realtà non di una novità in assoluto; la lampadina non fu altro che la combinazione di alcune scoperte precedenti che nessuno, prima di Edison, ebbe l’intuito di mettere insieme (tanto di cappello, comunque!). Il transistor invece, nato a metà del ‘900, ha origine da una serie di scoperte contestuali alla sua invenzione (chi lo ideò non fece una mera opera combinatoria). Per quanto straordinari, questi due oggetti che hanno rivoluzionato la nostra vita sono nati da processi generativi diversi: il primo per una sorta di mescolamento di scoperte, il secondo per pure invenzione. Intendiamoci, magari averla oggi l’intuizione di entrambi. Ma il fatto è che oggi le invenzioni, per una serie di motivi, sono sempre più simili a quella della lampadina. La verifica di questo fatto si può fare controllando i codici con cui vengono catalogati i brevetti: per farla breve, se il codice è composto da due serie di numeri si tratta di una invenzione/combinazione, se invece il codice è fatto di una sola serie siamo davanti ad una invenzione pura (ed indovinate un po’ quante serie di numeri hanno la maggior parte delle invenzioni degli ultimi decenni?).

Ecco quindi che se parliamo di invenzioni pure il genere umano pare sia in un punto si stand-by (e a detta di qualcuno forse le biotecnologie daranno nuova spinta su questo versante). Ma per tornare alla domanda iniziale: si può inventare un lavoro? Stando a quello che ci racconta il mondo dei brevetti sul genio umano, diremmo proprio di no. Però sicuramente si può scoprire qualche nuova nicchia di mercato “mescolando” scoperte 8e bisogni) che esistono già. Se è vero che Edison per inventare la lampadina ha messo insieme scoperte non sue in una maniera nuova ed originale, forse noi potremmo fare la stessa cosa mescolando e rivisitando lavori, mansioni e servizi che esistono già (senza la pretesa, chiaramente, di diventare i nuovi Edison). D’altra parte ci sono imprese di successo che hanno fatto proprio questo. Uber, la famosa compagnia di servizi di noleggio con conducente, non ha mica inventato un servizio (i taxi, ed ancor prima gli autisti, esistono da tempo immemore): ha solo trovato un modo diverso di proporlo, mescolando il mondo delle quattro ruote con quello del digitale. Di esempi del genere se ne potrebbero fare a bizzeffe. Quindi quando qualcuno ci dirà di inventarci un lavoro se lo vogliamo trovare, potremo correggerlo dicendo che non c’è più niente da inventare. Semmai, si tratta di trovare la giusta combinazione.

Nuove professioni crescono

professione-ebookA volte le nuove professioni nascono senza che ce ne accorgiamo. O, meglio, non nascono esattamente come nuove professioni, nascono come “altre cose”, idee e sviluppi che pi portano anche alla nascita di nuove professioni. Parlando di tecnologie non è che il social media manager sia nato una mattina per invenzione di qualcuno o perché un’università ha deciso ad un certo punto di creare una laurea per definire questa professione. Più semplicemente e più coerentemente sono nati i social media, sono cambiate le modalità di comunicazione, si sono intensificate relazioni e modalità di gestirle e a un certo punto c’è stato bisogno di qualcuno che lo facesse di professione. Per guardare alla professione che potremo fare in futuro oggi non possiamo più aspettare annunci di lavoro, richieste più o meno strabilianti delle aziende, attivazione di fantasiosi corsi di formazione. No, niente di tutto questo. quello che dovremmo imparare a fare è guardare alla società e al contesto in cui viviamo e chiederci: cosa potrebbe essere utile? Quali sono i bisogni espressi? Quale competenze possono risolverli? Non si tratta di predire il futuro, ma di saper analizzare il presente.

Probabilmente è quello che hanno fatto i nostri amici di Pepelab quando hanno pensato di creare un percorso formativo intitolatoProfessione e-book: come vedete non hanno inventato nessuna professione, sono andati diretti alla sostanza. Innanzitutto una premessa che forse non è necessaria ma tant’è. Gli e-book tutti sanno cosa sono, ma forse non tutti sono consapevoli del fatto che non si tratta di un mercato che riguarda solo “quelli che vogliono farsi il libro da soli”. Attorno all’editoria digitale ruota un mondo complesso frequentato da editori, grafici, addetti marketing, informatici, software, distribuzione, logistica ed anche di scrittori (ci mancherebbe!).

Come forse qualcuno avrà letto il mercato degli e-book è in crescita: secondo il rapporto dell’Associazione Italiana Editori del 2014 il mercato del libro digitale ha registrato lo scorso anno un incremento del 40%. Un dato ancor più rilevante se si pensa che la stessa analisi riporta invece un calo dei lettori in Italia. Insomma, si tratta diun mondo da esplorare ed è per questo, forse, che il percorso ideato da Pepelab potrebbe attirare l’attenzione di quanti lo vogliono scoprire e approfondirne segreti e caratteristiche.

Professione e-book è un percorso che si sviluppa in 3 week end che sono al contempo 3 moduli e 3 workshop. Su 3 tematiche differenti. Il primo modulo è introduttivo e servirà a conoscere il mondo dell’ebook: “non daremo nulla per scontato e ti accompagneremo per mano alla scoperta degli aspetti più importanti: le tecnologie, i formati, gli standard, le opportunità del mercato. Valuteremo quali canali utilizzare per pubblicare il tuo ebook, come metterlo in vendita negli store digitali e inizieremo a conoscere le strategie per renderlo più visibile e promuoverlo al meglio”. Il secondo modulo entrerà nel vivo della questione affrontando la realizzazione pratica di un testo digitale: “come è fatto un ebook “sotto il cofano”, qual è la sua struttura e quali sono gli aspetti e le specifiche tecniche da tenere presenti nella sua progettazione. Prenderemo inoltre familiarità con alcuni tra i software più conosciuti e utilizzati per la produzione di ebook. Insomma, ci sporcheremo le mani lavorando nella nostra “officina dell’ebook”!“. Il terzo ed ultimo modulo è rappresentato da 3 differenti workshop dedicati al self publishing, all’ebook e fumetto, all’ebook e fotografia. A fine corso ci ritroveremo insieme per un focus dedicato a promozione e visibilità.

Questo percorso è dedicato a chi ha deciso di non stare ad aspettare che nasca una nuova professione ma vuole nascere insieme a lei. Per conoscere modalità di iscrizione, promozioni in corso (eh già, ci sono sconti e offerte), tempi ed avere altre informazioni vi consigliamo di contattare Pepelab: dite che vi mandiamo noi 😉

La tecnologia fa perdere posti di lavoro (è una bugia)

tecnologia lavoroSe tra chi legge questo blog c’è qualcuno esperto o amante di storia forse ha già capito dove vogliamo andare a parare. Sicuramente saprà che cosa si intende per rivoluzione industriale e che cosa questa ha comportato nella storia dell’intero pianeta nel quale viviamo. C’è chi afferma che in questi anni stiamo vivendo una rivoluzione simile, grazie all’informatica e alle tecnologie digitali. Quando utilizziamo il termine rivoluzione intendiamo qualcosa che, anche se lentamente, stravolge completamente il mondo (e il modo) in cui siamo abituati a vivere. Per intenderci, la rivoluzione industriale ha avuto come effetti, tra gli altri, la possibilità di avere la corrente elettrica nelle case (immaginate oggi di poterne fare a meno?) e di trasformare il mondo produttivo (negli Stati Uniti gli occupati nell’agricoltura sono passati dal 90% al 2%). Che cosa sta accadendo oggi? E che effetti potrebbe avere quella attuale se fosse una vera rivoluzione tecnologica?

Nel numero di Internazionale di questa settimana c’è un dossier (quello di copertina) che racconta in qualche modo proprio questa storia. Il titolo dell’articolo è “Il capitalismo dei robot” e la questione che vi è raccontata potremmo riassumerla in questa semplice domanda: la tecnologia sta togliendo posti di lavoro? Per trovare una risposta a questa domanda senza essere banali e frettolosi bisogna analizzare un po’ meglio la questione. Prima di tutto l’informatica ha un grande potenziale perché è in grado di auto-apprendere grazie alla sua incredibile capacità di fare calcoli e, soprattutto, di farli in maniera sempre più veloce (provate a leggere, se non la conoscete, la teoria detta legge di Moore). La conseguenza è che grazie a questa “abilità” il processo di sostituzione macchina/uomo riguarda con una certa facilità tutti i processi che sono ripetitivi ed ancor di più se si tratta di lavori faticosi e logoranti per i quali l’uomo ha come limite la propria resistenza. Il terzo punto riguarda l’automazione: grazie alla potenza di calcolo sempre più grande le “macchine” riescono a fare lavori sempre più complessi. A guardare  questo video sui robot Kiva nei magazzini di Amazon ci si rende subito conto di come possa essere importante l’influenza dei robot nel lavoro: quello che queste macchine fanno in maniera del tutto automatica non più di 10 anni fa era il lavoro di operai in un numero di almeno 5 volte superiore. Operazioni semplici, faticose, ripetitive: il massimo per un robot comandato da un computer.

La sostituzione riguarda soltanto i lavori manuali? Non si direbbe: i bancomat e le casse automatizzate hanno sostituito gran parte dei cassieri di banca e ci sono una serie di strumenti tecnologici (con relative applicazioni) che possono sostituire con una certa facilità il lavoro di una segreteria organizzata (chi ha più bisogno di una segretaria che gestisce gli appuntamenti quando esiste GoogleCalendar?). Considerato che la potenza di calcolo che 30 anni fa aveva un calcolatore dal costo di milioni di dollari grande come un magazzino oggi ce l’ha una PlayStation3, ci sarebbe da scommettere che nei prossimi lustri (pochi) le macchine avranno sostituito completamente gli uomini (e le donne) nella stragrande maggioranza dei lavori. Ora sta tutto nel decidere se questa è una bella o brutta notizia.

Per prendere questa decisione bisogna fare ancora un passo indietro (la storia spesso aiuta sia la scienza che l’economia). Quando negli Stati Uniti l’agricoltura ha perso la maggior parte dei suoi addetti che cosa è successo? La popolazione è diminuita drasticamente? C’è stata una disoccupazione epica? Non è andata così. Quello che è successo è che le persone hanno dovuto imparare a fare lavori nuovi e al contempo sono nati nuovi settori, nuove professioni, nuovi impieghi. Il problema è che la faccenda non è stata automatica e nemmeno immediata. Secondo J.M. Keynes in queste epoche di passaggio in cui l’innovazione tecnologica ha trasformato la società e l’economia, l’adeguamento delle “risorse umane”non ha viaggiato alla stessa velocità, è stato più lento. Questa asimmetria, tra la velocità del progresso e quella dell’adeguamento della popolazione, genera situazioni di mancato equilibrio ed anche un certo senso di smarrimento in chi vive durante il passaggio. Ci sembra che sia un po’ quello che ci sta capitando oggi: non possiamo dire che la tecnologia non sia utile e benefica, ma al contempo facciamo fatica a crederlo quando ci accorgiamo che è anche la causa della perdita di posti di lavoro. Il consiglio che la storia ci regala è che in questi frangenti ci sono solo un paio di cose che tendenzialmente sembrano giuste da fare: la prima è quella di interessarsi, conoscere e imparare a utilizzare la tecnologia; l’altra è di evitare di pensare che le cose che sono andate sempre in una certa maniera continueranno a funzionare sempre così. Questa rigidità, soprattutto se applicata alle scelte che ci riguardano da vicino come quella di un percorso professionale, potrebbe risultare pericolosa. Come facciamo ad accorgercene? Per esempio, se qualcuno di voi sogna ancora di fare il cassiere di banca forse è bene che prenda in considerazione qualche altra prospettiva 🙂

Qualche consiglio non fa mai male

arbre/mainsQuanti di voi dopo l’invio di un curriculum aspettano una risposta che non arriva mai? Nemmeno a dirlo questa è un’esperienza che è toccata a tutti e che, regolarmente, continua a capitare a molti. Per questa cosa essenzialmente ci sono due ordini di spiegazioni: potrebbe essere che la maggior parte delle aziende e dei loro responsabili siano maleducati ed in generale non rispondo a nessuno; oppure potrebbe essere che alcuni nostri curriculum non siano esattamente adeguati o forse non sono nemmeno troppo efficaci. Entrambe le spiegazioni hanno un riscontro nella realtà: in effetti ci sono aziende che ritengono una buona reputazione nei confronti di potenziali candidati un surplus di cui poter fare tranquillamente a meno. Ma ci sono anche casi in cui abbiamo spedito un curriculum senza rileggerlo, con errori grammaticali, importanti omissioni e quant’altro. Con l’aiuto di un simpatico post di scritto da Osvaldo Danzi su Wired proviamo a vedere insieme quali sono gli errori più comuni da evitare.

Innanzitutto i dati anagrafici: controlliamo sempre che siano completi (sì, anche l’età perché nasconderla è un trucco che usano quelli più “grandi” ed ormai tutti lo sanno)) ed evidenziamo quelli essenziali per farci trovare (avete messo i recapiti bene in vista o bisogna cercarli con la lente?). Poi: che lavoro vogliamo fare? Senza tanti giri di parole scriviamo esattamente e per parole chiave limitate e stringenti quello che vogliamo fare, la nostra mansione e il tipo di attività e compiti che siamo in grado di svolgere. In questo vale sempre e su tutto il principio della chiarezza. Con tutta l’esperienza che avete… rischiate di non trovare lavoro! Soprattutto se decidete di raccontarla tutta nel cv. Il curriculum deve essere un documento tendenzialmente breve (due pagine sono un limite insuperabile) anche se esaustivo: per questo è opportuno scegliere che cosa mettere e come metterlo. Scrivere che 15 anni fa avete fatto i gelatai per pagarvi l’università non è forse necessario se nel frattempo avete fatto ben altro. Il criterio che noi suggeriamo in questi casi è quello della scelta coerente: Scrivete e tenete per voi un curriculum “master” con tutte le esperienze fatte nella vostra vita lavorativa: quando si tratterà di fare un invio andate a togliere, soprattutto tra le esperienze più vecchie, quelle che non sono coerenti con il profilo per il quale vi state candidando. Attenzione che per coerenza intendiamo il fatto che l’esperienza svolta vi ha fatto sviluppare competenze utili per quella desiderata (ad esempio aver fatto il cameriere potrebbe essere coerente con un ruolo commerciale).

Infine inviate il curriculum e tracciate le vostre spedizioni (come se foste Amazon): calibratelo di volta in volta rispetto al destinatario, tenete traccia in un appunto o agenda di quando e a chi lo avete mandato. E non fatevi cogliere impreparati: se ricevete una telefonata da qualcuno che ha ricevuto il vostro curriculum evitate nella maniera più assoluta di mostrare che non vi ricordate a chi lo avete inviato. Quel contatto che stabilite è molto importante ed è necessario non fare una brutta impressione già dal primo contatto telefonico. Vi sembra un lavoro faticoso e per il quale serve un minimo di organizzazione? Esatto, è proprio così. E per evitarlo oggi non avete neppure più la scusa del tempo o delle risorse perchè gli strumenti tecnologici a disposizione sono tanti e spesso gratuiti: utilizzateli!

Il lavoro che si trova

il lavoro che si trovaSu circa 950mila annunci di lavoro comparsi on line (ma ci sono ancora annunci che viaggiano solo off line?) più o meno la metà sono annunci che riguardano l’innovazione, l’alta tecnologia: appartengono a settori in cui queste componenti sono il motore dello sviluppo. Quanti candidati sono pronti a rispondere a simili offerte? La risposta a questa domanda è piuttosto deludente, perché il problema è che probabilmente spesso capita che non ci siano profili adeguati.

Fatta la tara degli annunci che riguardano posizioni altisonanti solo a parole, ci sono però una serie di profili che difficilmente si riescono a trovare. Eppure sarebbe semplice: basterebbe prevedere quali sono le professioni più richieste, formare i giovani a questi profili… et voilà, il gioco è fatto, domanda ed offerta si potrebbero incontrare facilmente. Le cose però non stanno così per una serie di motivi. Il primo è che in realtà, per una serie di motivi culturali, le previsioni che non ci piacciono tendiamo a far finta di non vederle. Come quelle annunciate nella ricerca di qualche tempo fa degli studiosi  Frey e Osborne (Il futuro del lavoro: quanto sono sensibili all’innovazione tecnologica le professioni) in cui di profila un futuro in cui alcune professioni saranno destinate a scomparire perché sostituite dall’automazione. Così potrebbe accadere (e, crediamo, accadrà davvero) che chi ha competenze di medio livello, per esempio legate alla catalogazione e alla organizzazione dell’informazione come un assistente di studio legale, o abilità manuali, rischia di trovarsi rapidamente disoccupato.L’anticipazione di questo processo la possiamo vedere anche negli annunci che sono pubblicati oggi: più di un terzo delle posizioni aperte sono rivolte a chi non ha solo una competenza ma riesce a portare un contributo intellettuale per fare innovazione (che è qualcosa in più di saper fare bene una cosa).

Messe così le cose potremmo fare un’amara scoperta: le posizioni che le aziende non riescono a coprire non sono quelle per lavori che gli italiani non vogliono fare (il/la badante) ma quelli che gli italiani non sanno fare (perché non si sono formati appositamente). Oggi quando un giovane è davanti alla scelta del percorso formativo che potrebbe lanciarlo nel mondo del lavoro ha davanti due “istituzioni” ad indicargli la strada. Una è la scuola/università che nella maggior parte dei casi è ancora dell’idea che quelle tecnologiche siano ancora competenze specifiche di un settore (mentre oggi sono assolutamente trasversali). L’altra sono i genitori che, oltre a non essere nativi digitali, spesso non frequentano la rete in maniera assidua, consapevole, competente. Diciamo che, forse, in questa epoca non sono i consiglieri migliori per il proprio futuro. In realtà ci sono percorsi formativi che possono portare a percorsi di carriera davvero interessanti, basta solo provare ad allargare l’orizzonte della ricerca e lo spettro dei consiglieri. Per esempio le cose scritte in questo post le abbiamo lette sull’ultimo numero della rivista Wired che ha messo on line anche un sito dedicato al mondo del lavoro innovativo: all’indirizzo jobs.wired.it ci sono annunci, articoli, informazioni per trovare lavoro ma anche per rendersi conto di quanto e come sta cambiando il mondo del lavoro. Buona navigazione!

Trovare lavoro: cosa bisogna saper fare

OLYMPUS DIGITAL CAMERATrovare lavoro e, soprattutto, trovarlo adatto alle nostre competenze e in sintonia con le nostre aspirazioni non è una cosa facile. Sembrerebbe anzi che in Italia, al momento, sia una cosa impossibile. Spesso ragazzi e ragazze vengono nel nostro servizio e chiedono “un lavoro qualsiasi”: ci spiace dover dire che questo lavoro, di fatto, non esiste. Sembra un paradosso perché se qualcuno immagina che un lavoro qualsiasi significhi essere disposti a fare tutto, pare impossibile che nessuno offra niente. Come a dire: “possibile che non ci sia un compito od una mansione, anche elementare e semplice, che posso svolgere”? Ed il problema è proprio questo. Data la competitività in tutti i settori ed a tutti i livelli, presentarsi disposti a fare tutto si traduce in un molto più povero “non so fare niente”. Oggi quel che conta è poter dare l’idea di sapere fare bene qualcosa: avere un’idea precisa delle proprie competenze e delle proprie abilità. E venderle al meglio.

Cosa bisogna saper fare allora? La risposta è duplice. La prima riguarda le nostre competenze nella ricerca. Quando cerchiamo lavoro dobbiamo sapere ricercare le informazioni giuste e riuscire ad utilizzarle al meglio (quanti di noi si sono informati, ad esempio, sul nome del referente del personale o sui progetti in corso dell’azienda alla quale stiamo per spedire il cv?). L’altra cosa che dobbiamo saper fare è “comunicare”! Comunicare significa sapersi presentare con una lettera di presentazione ed un cv fatti a regola d’arte, conoscere le giuste parole da utilizzare ad un primo incontro, sapere le cose da dire e quelle da non dire ad un colloquio, saper controllare il proprio linguaggio (anche quello non verbale) ed essere affascinanti e interessanti nelle cose che raccontiamo. Infine tra le cose che bisogna saper fare quando si cerca lavoro c’è “riuscire a definire un obiettivo” ed avere la costanza di perseguirlo: essere focalizzati su di un punto specifico (il tipo di lavoro, la mansione, il settore, l’azienda che abbiamo nei nostri desideri) può sembrare una vana speranza ma in realtà risulta, alla fine, l’unica strada per avere qualche possibilità. La generalizzazione (un lavoro qualsiasi) è sempre più spesso perdente.

Abbiamo scritto che la risposta è duplice perché poi ci sono le cose che bisogna saper fare per essere scelti. Ovvero quello che le aziende cercano, in termini di competenze, tra i lavoratori che vogliono assumere. In questo senso il blog “Italians in fuga” ha pubblicato qualche tempo una analisi di Linkedin, il social media dedicato al business, nella quale compaiono le competenze professionali più richieste nel mercato del lavoro. Il dato è su di un livello globale, quindi non parametrato alla sola Italia; leggerlo però può essere di aiuto per avere un quadro più preciso di che cosa accade nel mondo del lavoro.

La maggior parte delle competenze richieste appartiene a scienza, tecnologia, ingegneria e matematica (conosciute con l’acronimo STEM in inglese). La gestione di informazioni è richiesta dappertutto per fare fronte alla sua sempre maggiore disponibilità (per esempio capacità di analisi dei dati e statistica sono richiestissime). La conoscenza di una seconda lingua è molto richiesta da parte di aziende che operano a livello globale e devono gestire i rapporti con clienti di tutto il mondo. Nei due elenchi pubblicati ci sono sia le maggiori competenze a livello globale che quelle suddivise per Paesi (purtroppo nulla rispetto all’Italia). Per il mercato interno potremmo rifarci a dati quali quelli di Unioncamere sul fabbisogno di lavoro interno (sistema Excelsior): qui le cose cambiano abbastanza (e lo vedremo in un prossimo post) anche perché, purtroppo, molti passaggi di quella che è stata definita da più parti come la rivoluzione digitale il nostro Paese li ha saltati o sta ancora aspettando di farli. Riusciremo a recuperare? Ce lo auguriamo ma nel frattempo per tenerci al passo con i tempi ed essere sempre più aggiornati possibile prestiamo attenzione a quello che accade nel resto del mondo: prima o poi lo vedremo anche qui.